Pd, il futuro dipende solo dalle idee per il Paese

Politica. Lo psicodramma del Partito democratico, andato in onda sulle modalità di voto del suo nuovo segretario - se unicamente con i gazebo o anche online - è solo l’ultima delle tante beghe che hanno costellato la preparazione delle primarie in calendario per il 26 febbraio.

Attriti tutti incentrati sulle modalità di voto e sul posizionamento dei leader delle varie correnti, piuttosto che sulla proposta da fare al Paese per strappare la guida del governo alla destra della Meloni. Anche lo scontro consumatosi recentemente sul «Manifesto dei valori», alla cui redazione è stato chiamato un sinedrio di ben «87 saggi», si è poco curato delle cose da fare. Si è appuntato su «chi siamo», poco o nulla su «ciò che vogliamo», che è poi la vera domanda che gli elettori rivolgono a chi chiede loro la fiducia. Non si tratta di occasionali incidenti di percorso. Sono piuttosto il portato di un male che viene da lontano. Se Rosi Bindi è per lo scioglimento del Pd, se Pierluigi Castagnetti paventa una scissione, se Luigi Zanda ha rassegnato le dimissioni è segno che la malattia è grave. Per Cirino Pomicino si tratterebbe addirittura di un male incurabile perché il Pd sarebbe un organismo geneticamente modificato, impossibile da ricostruire.

Più che ai giudizi, è bene comunque affidarsi ai fatti. I primi sono soggettivi, i secondi maledettamente oggettivi. Alla nascita, nel 2008, il Pd contava su più di 12 milioni di voti, pari al 33,2% dell’elettorato nazionale: solo poco al di sotto del risultato elettorale raccolto nel 1976 dal Pci di Berlinguer (34,37), il migliore ottenuto dalla sinistra in tutta la sua storia. Dopo aver toccato il massimo del 40,8% alle elezioni europee del 2014, la sua vita è stata tutta segnata da un’emorragia di voti. Alle elezioni del 25 settembre scorso il partito di Letta ha ottenuto poco più di 5.300.000 voti, quasi 7 milioni in meno del 2008, il risultato in assoluto peggiore della sua storia.

Alla caduta a precipizio del numero dei suoi elettori fa da pendant il calo degli iscritti: 800.000 nel suo primo anno di vita, 400.000 nel 2019, 50.000 nell’ultimo anno. Che dire poi della sostituzione a raffica dei suoi segretari, sia che avessero ottenuto buoni o cattivi risultati. Ben sette (Veltroni, Franceschini, Bersani, Renzi, Martina, Zingaretti, Letta) in quindici anni, per non contare le due reggenze di Epifani e Orfini e l’abbandono del partito da parte di due segretari (Bersani e Renzi). Per questo, il prossimo congresso sarà una questione di vita o di morte per il Pd. Inseguiva una convinta (all’origine) vocazione maggioritaria e sì è visto costretto a ripiegare sul progetto di costruire una coalizione.

Si proponeva di allestire un campo largo in cui accorpare sia il Terzo Polo che il M5S di Conte e si ritrova in un campo stretto, con entrambi i partner mancati che non solo escludono tassativamente una futura alleanza a tre ma che non fanno anche mistero di voler cannibalizzare i dem. Saprà «il nuovo Pd», promesso da Letta, dotarsi di un segretario che non sia solo un arbitro tra i capi bastone delle correnti, ma un vero leader, che sia un potenziale premier, che non si limiti a contestare l’azione della Meloni ma che proponga un credibile programma alternativo di governo, sola alternativa al suo irrimediabile declino?

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