Pnrr, la voce grossa in Europa non serve

Il commento. È il Pnrr, o meglio: i suoi ritardi e i rischi che essi comportano, il nuovo motivo di scontro tra il governo e le opposizioni, tra il governo e i suoi critici in Europa. Il fatto ormai è certificato: l’Italia non riuscirà a mantenere gli impegni che ha preso nel momento in cui le sono stati assegnati più di 200 miliardi dal fondo della Next Generation EU da spendere entro il 2026. È persino a rischio la terza tranche di aiuti, pari a 19 miliardi con i suoi 55 progetti non arrivati al punto.

Il motivo è noto, talmente noto che sin da quando il Pnrr è stato varato, che lo si conosce, lo si teme e si fanno per questo i peggiori pronostici. Il motivo è che l’Italia, con i suoi meccanismi istituzionali al collasso, non è in grado di spendere i soldi in tempi lontanamente paragonabili a quelli europei. Tanto è vero che finora, di quelli che sono arrivati da Bruxelles, sono stati davvero impiegati appena 6 miliardi. Si sta cioè realizzando la peggiore delle previsioni: che riesca a bloccare tutto la burocrazia, intendendo con questo termine generico non solo gli impiegati pubblici ma la mostruosa giungla di norme che li comanda e li muove, uno contro l’altro, uno sopra l’altro, nella gara tra chi di loro mette l’ultimo e definitivo bollo sull’ambita «autorizzazione».

Adesso abbiamo avuto un mese di proroga per metterci in regola con la terza tranche ma nel frattempo dobbiamo spiegare ai burocrati di Palais Berlaymont quanto siano davvero compatibili con gli obiettivi del NG-EU i due stadi («green», naturalmente) di Venezia e Firenze che i sindaci Brugnaro e Nardella hanno generosamente promesso ai loro concittadini tifosi e su cui non intendono fare marcia indietro. «Sarebbe una resa» commenta il collega di Milano Sala.

Dopo mesi di timori («Entro il 2026 non ce la faremo mai») nonostante l’ottimismo di Mario Draghi, ora è stato un ministro in persona, Raffaele Fitto, a dire: «Molti progetti non vedranno mai la luce alla data stabilita». Poi certo ha arrotondato la sentenza, l’ha un po’ ridimensionata ma la sostanza dell’ammissione resta. «Comunque discuteremo con la Commissione» ha spiegato il suo pari Urso, ben sapendo però che l’osso durissimo con cui si dovrà confrontare è il lettone Dombroskis il quale, come è noto, non ci ama e non è disposto a concederci né flessibilità né proroghe, niente.

Di più: Dombroskis fa parte di quel gruppetto di cosiddetti frugali che aspettano solo il fallimento dell’Italia sul Pnrr per stringere di nuovo i cordoni del Patto di Stabilità che deve essere ridiscusso dopo la pandemia. Se dimostriamo che non siamo in grado di spendere i soldi del debito comune europeo, dobbiamo tornare a dare maggiori garanzie sul debito nazionale, i famosi «compiti a casa» di merkeliana memoria. La nostra unica speranza è che non siamo proprio gli unici in difficoltà e che l’aumento delle materie prime e dell’energia ha bloccato molti cantieri in giro per l’Europa. Però, come al solito, il «problema» siamo noi.

Tutto questo naturalmente si riverbera sul confronto interno maggioranza-opposizione. Quest’ultima, accusando il governo di incapacità, prende di mira soprattutto la rivoluzione che Meloni ha voluto nella governance del Pnrr trasferendola dal ministero dell’Economia (dove l’aveva imbullonata Draghi) a palazzo Chigi sotto il suo diretto controllo attraverso Raffaele Fitto.

Le opposizioni sono scatenate, la Corte dei Conti comincia a indagare, il Quirinale è preoccupato. Salvini, a capo del ministero con maggiori ritardi (11 progetti su 29) ha ora sfornato il nuovo Codice degli Appalti che però è già sotto accusa perché prevederebbe poche garanzie anti-corruzione.

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