Politica del popolo
nel tempo immediato

Una celebre massima, attribuita a De Gasperi forse anche perché ben si attaglia alla sua figura, recita: «Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione. Il politico pensa al successo del suo partito, lo statista a quello del suo Paese». È destino di ogni aforisma che un suo uso ricorrente finisca col depotenziarne l’originaria forza persuasiva. Così è stato anche per il motto sopracitato.

Ormai lo si utilizza più per pronunciare un lapidario giudizio liquidatorio dei politici nel loro complesso che non per disporre di un metro di valutazione utile a distinguere chi è statista e chi politico. Quest’ultimo, peraltro, nell’immaginario collettivo equiparato a politicante. L’aforisma merita invece di essere inteso nel suo significato originario perché aiuta a cogliere l’odierno stato di salute della politica.

Fino a pochi anni fa, in ogni democrazia ben operante, il premier, appena eletto, organizzava il suo programma di lavoro tenendo gli occhi ben fissi sul prossimo appuntamento delle urne. Per questo motivo si affrettava a realizzare nel primo anno di legislatura le misure giudicate necessarie, ma impopolari, nella speranza che l’elettorato avesse il tempo necessario per apprezzare i benefici effetti dell’amara medicina somministrata.

Non è più così ora. I tempi si sono enormemente accorciati. Non c’è giorno che non sia sfornata una rilevazione demoscopica vuoi sulla popolarità dei vari leader in competizione, vuoi sull’apprezzamento delle misure prese dal governo, vuoi, infine, sull’orientamento elettorale dei cittadini. Il risultato è che i sondaggi schiacciano la vista del governante sul presente immediato senza lasciandogli il respiro sufficiente per concepire, e tanto meno per attuare, misure lungimiranti.

Non è più tempo, insomma, per gli statisti. Non lo è a causa dei condizionamenti provenienti dall’esterno. Ma non lo è nemmeno, e forse soprattutto, per quelli maturati all’interno. Il populismo che domina ormai l’intero universo politico (l’azione, lo stile, i programmi di partiti e leader, non esclusi quelli che si ergono a suoi critici) si regge sull’assunto che «il popolo» ha sempre ragione. L’assegnazione dello scettro del potere al popolo brucia il ruolo dei partiti che ambiscano a guidare la nazione verso fini prestabiliti.

Nega loro di intraprendere iniziative che non siano immediatamente popolari. Li spinge piuttosto a secondare aspettative, rivendicazioni, desiderata, pure ansie e timori del momento.

Privilegiare l’oggi sul domani, guardare ai sondaggi quotidiani invece che alle generazioni future è diventato ben più che un comportamento opportunistico. È stato elevato a rigido comandamento, da osservare in particolare nella compilazione dell’agenda politica governativa.

Reddito di cittadinanza e quota 100, ad esempio, sono state giudicate misure irrinunciabili, non perché capaci di creare le condizioni di una ripresa dell’economia (lo stesso Documento di economia e finanza appena approvato dal governo riduce a un misero 0,2 per cento il loro apporto alla crescita del Pil), ma semplicemente perché adempiono fedelmente ad una promessa elettorale, costino quel che costino (ben 94 miliardi in tre anni). Evidentemente non è un Paese, il nostro, per statisti.

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