Prendere tempo
Una verifica
anomala

Verifica: basta la parola per far riemergere dall’oblio gli abusati riti della Prima Repubblica. Erano i tempi in cui i partiti dettavano legge, imponendo ordini ai governi e regole alle istituzioni. Bastava un distinguo nei confronti del governo da parte di un esponente della maggioranza, anche non di prima fila, e la politica entrava in fibrillazione. Scattava allora il rito della verifica. L’esito era per lo più scontato. I segretari dei partiti di maggioranza si riunivano attorno a un tavolo, discutevano, trattavano e alla fine sottoscrivevano un compromesso. Molto fumo e poco arrosto? Più o meno. Il rito serviva in buona sostanza soprattutto per dare risalto e visibilità alla forza politica che aveva espresso critiche al governo. Niente più di questo: se quest’ultima avesse voluto provocare una rottura perché mai avrebbe accettato di sedersi attorno ad un tavolo?

Più o meno, la stessa funzione avrebbe dovuto svolgere la verifica promossa in questi giorni da Conte. Cosa c’è di meglio per guadagnare tempo e possibilmente far stemperare le tensioni emerse nella maggioranza? La funzione dilatoria sta avendo successo, meno invece l’effetto conciliativo. Il difetto – come s’usa dire – sta nel manico. Quella che è stata messa in moto è, infatti, una verifica anomala. Non è stata promossa al fine di ottenere una conciliazione (impossibile al momento) degli interessi in gioco con la stipula finale di un compromesso onorevole per tutti. È nata - e poi condotta - piuttosto come la prosecuzione di un conflitto condotto con altri mezzi: il duello ingaggiato contro Conte da Renzi, in qualche misura spalleggiato, anche se sottotraccia e tra mille ambiguità e distinguo, da Zingaretti e (si dice) anche da Di Maio.

Sosteneva Giulio Andreotti, uno che di politica se ne intendeva, che una verifica ha buone possibilità di successo se è chiaro l’oggetto del contendere. Se invece sono molte e soprattutto indeterminate le ragioni delle frizioni emerse, è facile che ci scappi la crisi di governo. È di tutta evidenza che, al presente, sono molte e maledettamente serie le ragioni di contrasto tra i soci del governo giallorosso. A parte il vizio d’origine di aver contratto un’alleanza non per attuare un programma ma per scongiurare un pericolo (il temuto governo dei «pieni poteri» di Salvini), a dividerli sono intervenute due nuove sfide, non solo impreviste ma anche proibitive: l’emergenza sanitaria, col carico di sofferenze e di lutti che procura alla popolazione, e la necessità di promuovere il rilancio di un’economia prostrata dal blocco prolungato delle attività. Due sfide che stanno facendo tremare i polsi a governi di ben altra compattezza e solidità (come quello tedesco della Merkel) e che comprensibilmente suscitano nella compagine giallorossa non solo forti dubbi (nel Pd e pure in alcuni settori del M5S), ma anche pesanti riserve (in Iv) sull’adeguatezza di Conte ad affrontare le tremende prove.

Le soluzioni all’impasse che i partiti avanzano in pubblico non sembrano convincere nemmeno loro: imprecisati patti di legislatura, fumosi tagliandi del governo, imbarazzanti rimpasti, ripartenze senza idee. Se si dà invece ascolto ai rumors che circolano, nasce il sospetto che la verifica serva un po’ a tutti per guadagnare tempo, in attesa di individuare una via d’uscita dallo stallo in atto e di trovare poi il coraggio per apportare le correzioni necessarie all’attuale assetto di governo per andare fino in fondo: rimpasto sì o no? Conte ter o nessun Conte? Maggioranza rossogialla o nuova maggioranza?

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