Preoccupano i frequenti
inciampi diplomatici

L’incontro di Luigi Di Maio con uno dei leader dei gilet gialli francesi ha fatto nascere una polemica destinata a non esaurirsi nel rapido e superficiale tempo della cronaca. In quell’incauta mossa politica – e ancor più nelle imbarazzanti mosse successive di altri esponenti del Governo – vi sono germi di patologie preoccupanti che possono seriamente nuocere al nostro Paese. La vicenda, nei suoi elementi di fatto, è tragicomica. Di Maio (vicepresidente del Consiglio) non soltanto ha incontrato uno degli esponenti di punta di un movimento di protesta che dichiara l’obiettivo di disarcionare il presidente della Repubblica francese e il suo governo, ma ha incitato il suo interlocutore a «non mollare», dichiarandosi disposto a dare un aiuto al movimento di protesta. La decisione del Governo transalpino di richiamare il suo ambasciatore in Italia può essere ritenuta eccessiva, ma di certo non è immotivata.

Dal canto suo Salvini non è stato da meno, sfoderando l’idea di incontrare Macron, il quale ha risposto, gelidamente, in forma ufficiale che il presidente della Repubblica francese ha come interlocutori Mattarella o Conte, non certo lui. In questo balletto di inciampi protocollari e di evidenti inadeguatezze, il presidente del Consiglio italiano non ha brillato per rigore istituzionale e dignità, limitandosi a ribadire candidamente che i rapporti di amicizia tra i due Paesi restano ben saldi. Di fronte a così palesi dissonanze delle due una: Conte avrebbe dovuto o chiedere le dimissioni a Di Maio o dimettersi egli stesso per non essere in grado di tenere al loro posto i ministri di un governo del quale egli è, almeno sulla carta, il leader.

I risvolti politici e diplomatici sono pesanti, ancorché da parte di alcuni si tenti di minimizzarli, facendosi scudo della tradizionale supponenza e dell’antico vezzo della «grandeur» tipici dei francesi. Tutto ciò (che pure esiste) passa in secondo piano rispetto alla pochezza dimostrata ancora una volta dai nostri governanti. Pochezza che emerge palesemente su numerosi piani. Chi ricopre cariche istituzionali non può cambiare casacca a suo piacimento. Nello specifico Di Maio non può difendersi (o essere difeso), affermando di aver agito come leader di partito e non come ministro. Non si può essere contemporaneamente ministri di lotta e di governo. A piacimento o per convenienza. Chi governa dovrebbe avere ben chiaro che l’investitura popolare non esime dal mettere sempre al primo posto gli interessi generali. Il consenso popolare è, per definizione, transeunte, mentre il rispetto delle regole è il fondamento delle democrazie e non soggiace alle maggioranze politiche, quali che siano. Le ripetute gaffe di gran parte degli esponenti del governo giallo-verde hanno la loro origine in un’avvilente carenza di cultura politica che sfocia frequentemente in una grammatica istituzionale pari a zero.

Non passa giorno che uno dei ministri (o viceministri o sottosegretari) non si produca in dichiarazioni di cristallino analfabetismo politico. Oltretutto tali pronunciamenti sono sovente accompagnati da un’esibita insofferenza nei confronti delle regole, che hanno le loro radici nella sostanza dei problemi, ma anche una specifica forma che va rispettata. Insofferenza pericolosa, poiché ritenere che le regole siano una camicia di forza è l’anticamera dell’autoritarismo. Il quale storicamente si è sempre fatto strada, proclamandosi dalla parte del «popolo». Salvo produrre comportamenti lesivi dei diritti proprio di quel popolo che si afferma di voler tutelare. Nel caso del dissidio con la Francia sfugge, forse, al governo attuale che l’Italia corre il rischio dell’isolamento rispetto alle altre democrazie europee. Una prospettiva inaccettabile, per la nostra storia e per i valori della nostra civiltà.

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