Prepariamo la Fase 2
Giustizia concreta
per un’equità sociale

Qualcuno, come Massimo Calvi su «Avvenire», lo ha già scritto e conviene ripeterlo alla vigilia della Fase 2: non andrà tutto bene, e soprattutto per i soliti ignoti, quelli che pagano di più. Gente comune e ceti popolari. L’operazione verità è in corso e bisogna stare con i piedi per terra dentro una crisi permanente e centrata sui percorsi di vita: quello dell’economia non sarà soltanto un aggiustamento contabile, mentre deve passare il messaggio che i nuovi stili di vita rappresentano un sacrificio in nome della protezione individuale e per poterla garantire agli altri.

Quel pezzo di retorica arruolata come ristoro dovrà cedere il passo alla rude prosa del realismo: razionalità e cuore. Cercando il possibile, non un’idealità astratta. Dinanzi al senso della tragedia della vita e alla sovranità della morte, ci siamo presi sul serio: in modo disciplinato e consapevole, smentendo l’idea di avere fiducia nelle nostre incapacità. Semplicemente falso. A volte le cose possono essere migliori di come vengono descritte, sapendo però che conosciamo poco di quel che ci è successo e che le certezze sanno di presunzione.

Il coronavirus è piombato su un mondo già meno globale di prima, nel bel mezzo di un’emergenza ambientale, della sofferenza del ceto medio e di una rivoluzione tecnologica. Siamo entrati nella pandemia non al meglio e occorre riflettere in chiave autocritica su un modello di sviluppo: squilibrato, molto di corsa e lasciando indietro gli ultimi e i penultimi. Una riflessione oggi più penetrante, lungo un percorso che non s’è mai interrotto. Senza velleità: come dice Papa Francesco, difficile restare sani in un mondo malato. Riconoscendo che rallentare e fermarsi costa, come abbiamo visto in questo periodo. Venticinque anni fa, non un sovversivo ma il grande sociologo liberale Ralf Dahrendorf ammoniva sui rischi di una competizione estrema che aveva sovrastato ogni altro agire, riducendo il cittadino ad «animale da combattimento». Se la ricchezza, sosteneva, non equivale semplicemente al Pil, ma alle condizioni che formano il benessere, l’esclusione è la nuova forma dell’ingiustizia: economicamente dannosa, socialmente corrosiva, politicamente esplosiva.

Oggi più di ieri, in modo più comprensibile e brutale, perché i problemi sociali emergeranno con tutta forza, coinvolgendo ceti fino ad oggi salvati dalle privazioni. Non illudiamoci: lo scontro sarà su una certa idea di società e servirà rileggere la Costituzione che ha messo a norma la democrazia e l’uguaglianza sostanziali. L’equità sociale come giustizia del caso concreto. Se analogia storica ha da essere, l’indole ricostruttiva del dopoguerra suona familiare. Il ministro Franceschini vede nella lezione del dopoguerra l’esempio virtuoso, altrimenti ci sarebbe il meccanismo distruttivo del «tutti contro tutti». Gli uomini di buona volontà possono ricominciare da quel bivio risolto in maniera esemplare, pur con la pochezza di ciò che passa il convento del 2020: tralasciando tutto il resto, manca De Gasperi e Salvini, onestamente, non è Togliatti. Certo, ora la casa brucia e si organizzano i soccorsi. Stato, società civile, corpi intermedi che alimentano la cinghia di trasmissione fra il basso e l’alto sono tornate ad essere parole pronunciabili, persino in ambienti insospettabili. Quel che non è stato possibile fare in anni evolve nel passo rapido che cerca di addomesticare dentro di sé deficit, insufficienze, colpe e distrazioni.

L’Europa ha battuto un colpo e aperto una nuova fase interventista togliendo un alibi ai sovranisti, Conte (stando ai sondaggi) sale a quota 66% di gradimento e Salvini scende al 31%. Vorrà pur dire qualcosa.

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