Profitto e lavoratore hanno preso vie diverse

ITALIA. Come spiegare il fenomeno delle grandi dimissioni. Nel gennaio del 2016, ben prima della pandemia da Covid 19, è andata in onda nelle sale cinematografiche una commedia di strepitoso successo di Checco Zalone dal titolo «Quo Vado», evidente riscrittura ironica del latino «Quo Vadis» (Dove vai).

Al protagonista del film, a seguito della riforma della Pubblica amministrazione che prevede il taglio delle province, vengono offerte ripetutamente allettanti somme di danaro per essere messo nelle condizioni di dimettersi dal suo ufficio di «Caccia e pesca». Di fronte ai suoi persistenti rifiuti pur di non perdere il tanto sospirato «posto fisso», viene spedito in giro per il mondo in località sempre più impervie, fino all’algida Norvegia.

Checco però resiste a disagi di ogni tipo fino a quando non apprende che la compagna Valeria, una donna che aveva conosciuto nella sua esperienza in Norvegia e dalla quale si era separato per non rinunciare al posto fisso, era impegnata in un ospedale che aveva allestito in Africa. A questo punto rinuncia al contratto di lavoro per il piacere di condividere l’esperienza della compagna e destina la somma ricevuta come liquidazione all’acquisto di medicinali.

La sceneggiatura del film pone dunque l’accento in modo molto divertente e arguto su un fenomeno che negli ultimi anni sta coinvolgendo un numero sempre maggiore di lavoratori, quello delle «grandi dimissioni». Un nuovo approccio esistenziale che sta mettendo in discussione la stessa «centralità del lavoro», che per molti va sempre più assumendo un ruolo di secondo piano rispetto alle esigenze familiari e, soprattutto, all’esigenza di ognuno di vedere soddisfatte le proprie inclinazioni e aspirazioni. Questo nuovo, diffuso atteggiamento ha dato origine a un ampio e approfondito dibattito nel quale stanno emergendo valutazioni dalle diverse sfumature tra economisti, sociologi e filosofi. Il fenomeno ha preso consistenza negli Usa a partire dal 2021 e si è in seguito allargato a macchia d’olio in tutti i Paesi occidentali. Ciò che suscita qualche meraviglia è che l’Italia - in genere più restia a recepire i cambiamenti e dove chi aveva fino a ieri un posto fisso se lo teneva ben stretto - è tra i Paesi europei in cui il fenomeno delle dimissioni ha raggiunto i volumi più significativi. Il trend ha avuto inizio nella seconda metà del 2021 e ha continuato a crescere raggiungendo nel 2022 la quota di circa 2 milioni e 200mila dimissioni. Secondo molti economisti questa tendenza era già in atto prima del 2008 e non è da interpretarsi come fuga dal lavoro, bensì come l’effetto della ripresa economica post-pandemica che ha creato le condizioni per cui i lavoratori fossero più propensi a cercare nuove opportunità. Molti sociologi sostengono, invece, che siamo di fronte a un grande cambiamento di cui il Covid è stato uno spartiacque. Se prima del Covid le priorità erano i soldi e la possibilità di crescita, dopo di esso per molti il denaro non è stato più considerato fine a sé stesso, ma come opportunità per perseguire la migliore qualità possibile della vita. Il Covid avrebbe agito da detonatore, facendo esplodere alcune contraddizioni sepolte da decenni sotto il velo della normalità. La pausa forzata avrebbe dunque fatto emergere un profondo «disagio collettivo», determinato da un insieme di sintomi che derivano da una condizione di stress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo. Il filosofo Andrea Colamedici, autore insieme alla collega Maura Gancitano del libro «Ma chi me lo fa fare» (HarperCollins, 2023) condivide la posizione dei sociologi, ma sostiene anche che questo disagio collettivo abbia alla base un fattore dominante: «Il profitto è stato messo al centro del lavoro e il lavoratore è diventato un mero mezzo per ottenerlo».

Lo stesso Papa Francesco è apparso in sintonia con questa posizione, avendo più volte insistito sulla necessità di «un nuovo umanesimo del lavoro». In particolare, il dicembre scorso durante l’udienza ai dirigenti sindacali ha detto: «Non permettiamo che si mettano sullo stesso piano il profitto e la persona. L’idolatria del denaro tende a calpestare tutto e tutti e non custodisce le differenze». Poi, riferendosi proprio al fenomeno delle grandi dimissioni, ha dichiarato: «Questo fenomeno non dice disimpegno ma la necessità di umanizzare il lavoro».

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