Province zoppe senza autonomia finanziaria

ITALIA. Da capro espiatorio di tutte le inefficenze della pubblica amministrazione a specie a rischio da preservare.

In dieci anni, quelli che ci separano dal varo della legge 56 del 2014, riforma che porta il nome di Graziano Delrio, la Provincia è passata dal banco degli imputati nella grande battaglia allo spreco e alla casta a ultimo baluardo della strenua resistenza degli enti locali, quelli dei sindaci barricati dietro le mille incombenze quotidiane e alle prese con bilanci da fame. Arenato sul fallimento del referendum del 2016, il mancato ridisegno delle competenze ha lasciato di fatto campo libero alle Regioni nella riorganizzazione delle deleghe.

La proposta

Il risultato è un quadro talmente eterogeneo da rendere molto difficile qualsiasi tentativo di riorganizzazione legislativa, che a parole tutti auspicano, ma che richiede una messa a terra di rara complessità, almeno pari alla varietà territoriale che ci regala la nostra geografia amministrativa,dove Bergamo, che ha 243 Comuni e un milione e 115mila abitanti, non ha le stesse deleghe esecutive di Prato, che di Comuni ne ha appena sette, così come di Isernia, che conta appena 78mila abitanti. La proposta del presidente Pasquale Gandolfi, forte del consenso di tutte le Province italiane, prende le mosse proprio da questo scenario di incertezza operativa e grande varietà territoriale.

Se da un lato la direzione appare chiara, ovvero riportare il baricentro delle funzioni esecutive alle Province, lasciando il campo legislativo alle Regioni, dall’altro appare evidente che la condizione necessaria per qualsiasi tipo di riforma è la garanzia dell’autonomia finanziaria dell’ente. Detto in altri termini, va bene riportare centralità alle Province, tornare all’elezione diretta del presidente, ridare dignità di interlocutore istituzionale a un ente che per anni ha dovuto sostanzialmente costruire da sé la propria credibilità, ma senza garantire una capacità di spesa non cambierebbe nulla.

Lo squilibrio finanziario

Allo stato attuale infatti lo squilibrio finanziario strutturale delle Province è di circa un miliardo di euro. Ogni anno le Province versano allo Stato una quota dei tributi che incassano. Da Bergamo, per esempio, nel 2025, 30 milioni derivati dalle quote di Rc Auto saranno versati a Roma. Il risultato è una capacità tributaria praticamente azzerata.

In base alla nuova riforma dei tributi locali, dall’anno prossimo l’imposta Rc Auto sarà sostituita con una compartecipazione all’Irpef, ma le Province chiedono che sia stabilito un meccanismo dinamico per adeguare il prelievo ai valori reali per evitare il rischio di essere penalizzati con il cambio di regime tributario. E inoltre facendo appello alla Costituzione chiedono un tributo proprio, introducendo l’ipotesi di un’imposta di sbarco su porti e aeroporti da distribuire poi attraverso un fondo anche ai territori senza queste infrastrutture. Una proposta che garantirebbe un gettito che consentirebbe un minimo di programmazione finanziaria, ma che dovrà passare al vaglio della politica e che, come per tutti i nuovi balzelli, sconta già la zavorra dell’impopolarità. Certo è però che le nozze con i fichi secchi non si fanno.

Un ruolo da regista

Con maggiore autonomia finanziaria e una dignità politica definita, la Provincia, almeno in realtà affini a quella bergamasca, come in Lombardia, potrebbe davvero assumere pienamente quel ruolo da regista a cui aspira, favorendo così le gestioni associate tra Comuni, da più parti auspicate, per superare i gap tecnici e finanziari a cui sono sottoposte le realtà più piccole. Senza rinunciare alla tutela delle identità locali, che sono il motore sotterraneo che l’hanno tenuta in vita per tutti questi anni di limbo istituzionale.

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