Quel debito che taglia
già le ali al decollo

Ita, la nuova compagnia aerea nata sulle ceneri di Alitalia, ha più la fisionomia del brutto anatroccolo che della fenice e comunque ha già il piombo nelle ali. A parte il brutto nome (è l’acronimo di Italia Trasporto Aereo, ma ci si poteva sforzare di più), la nuova compagnia aerea rischia di decollare (il «passaggio» di consegne ufficiale è previsto il 15 ottobre) con un debito di 900 milioni di euro (senza contare gli interessi). È questa la cifra del prestito ponte concesso quasi cinque anni fa dal governo Gentiloni al vecchio vettore nazionale per farlo rimanere a galla in attesa di un compratore e che secondo la Commissione europea dovrebbe essere restituito in quanto assimilabile ad aiuto di Stato (e dunque concorrenza sleale rispetto alle altre compagnie aeree private, molte delle quali, a cominciare da Ryanair, avevano infatti denunciato il prestito).

Nulla di definitivo rispetto alla decisione, fanno sapere da Bruxelles. Ma abbastanza per spingere sul progetto del solito spezzatino (smembrando da Alitalia handling, manutenzioni, «aviation», ovvero settore volo, cargo, etc.) e soprattutto fare pressione per assumere il personale della newco con stipendi tagliati dal 50 al 30 percento rispetto al regime precedente, senza accordi con le organizzazioni di categoria e fuori dal Contratto collettivo nazionale di lavoro.

Le tensioni con i sindacati sono alle stelle. Mentre il Financial Times, bandiera del liberismo finanziario, che aveva anticipato la notizia della richiesta da parte dell’Antitrust dell’Unione europea di restituzione del prestito (dopo 1.235 giorni di indagini), scrive che «è l’ultimo vergognoso capitolo per Alitalia, perennemente in perdita da 75 anni».

I dipendenti, smarriti, continuano a manifestare con blocchi stradali, cortei e picchetti. E intanto si diffondono le voci di nuove compagnie low cost che potrebbero nascere accanto a Ita nella galassia dell’ex Alitalia.

Il problema non è semplice, perché si tratta di tutelare le famiglie dei dipendenti e contemporaneamente garantire la concorrenza a livello europeo.

È l’ennesimo capitolo della storia dell’Alitalia, che ormai è una storia di salvataggi. Passata a metà anni ’90 dalla privatizzazione ai «capitani coraggiosi» che avevano puntato sulle rotte domestiche ma non avevano capito che la tratta Milano-Roma era più facilmente fruibile con i supertreni ad Alta velocità (oggi c’è un progetto di integrazione dei due vettori, treno e aereo) era stata consegnata nelle mani del socio arabo Etihad, per poi finire nel commissariamento, nonostante il fiume di denaro pubblico speso, con lo scopo di essere ceduta sul mercato. Da qui la scelta del governo Gentiloni di iniettare nuova liquidità in vista della dismissione, in attesa di un compratore. Fu così che nel 2017 arrivò il prestito di 400 milioni di euro anticipati dallo Stato-Pantalone, poi allargato a 900 (abbondiamo, che sarà mai?). A farsi carico della restituzione avrebbe dovuto essere il compratore, che non arrivò mai. Ita rileverà 52 aerei e assumerà 2.800 lavoratori (1.550 «naviganti» e 1.250 personale di terra). E gli altri? I sindacati hanno chiesto la cassa integrazione fino al 2025 per tutti i lavoratori Alitalia che non dovessero essere ricollocati. E chi provvederà a restituire i 900 milioni? Alitalia non ce li ha, perché li ha spesi tutti.

Dunque lo Stato potrebbe iniettarli nelle casse dell’Ita, per poi farli rientrare di nuovo al Tesoro, in un gioco del cerino a somma zero per l’Ita ma a somma 900 milioni per i contribuenti. Sarà così? O Draghi ha pensato a una soluzione diversa per quello che è uno dei dossier più complicati degli ultimi 30 anni? Allacciate le cinture: ne vedremo ancora delle belle.

© RIPRODUZIONE RISERVATA