Referendum derubricato
e le Regioni decisive

Più un rompicapo che un referendum, e chi lo dice può avere ragione: coincide con il voto tutto politico alla massima potenza in 7 Regioni, che distorce il senso del quesito costituzionale, nel quadro di un trasversalismo fra partiti e nei partiti che prende dentro tutto, equilibri nel governo e nell’opposizione. Già la materia è ostica e non smuove emozioni. Niente di paragonabile al referendum del 2016 di Renzi, bocciato dopo aver mobilitato dibattito e partecipazione. Si modifica la Costituzione senza una riflessione compiuta sulla funzionalità delle istituzioni.

Il referendum confermativo della legge costituzionale che riduce di un terzo i parlamentari è figlio di un’altra stagione e si consuma nell’era del Covid che sta cambiando le priorità dell’opinione pubblica: dalla distruzione alla ricostruzione. Il Sì e il No, entrambi, intendono migliorare la qualità della democrazia. Ma c’è un vizio d’origine, non aver messo la Costituzione al riparo dalle maggioranze che guidano il Paese: la Carta del ’48 è a disposizione dei cittadini, non dei governi.

La discussa primogenitura dei grillini rientra nella logica anti casta e punitiva: tagliare le poltrone, aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. L’ultima bandiera in mano ai 5 Stelle, l’estremo soccorso di un’esperienza politica fallimentare, al di là dell’eventuale affermazione elettorale. Un rumore di fondo, un astio antiparlamentare che attraversa, da minoranza, tutta la storia dell’Italia unitaria. In ogni caso il risparmio economico, l’aspetto più manipolabile ai fini demagogici, è poca cosa: il costo di un caffè per ogni italiano, stando ai conti dell’economista Cottarelli. E poi perché iniziare proprio dalla cura dimagrante degli eletti e chi stabilisce il numero perfetto?

È pur vero che, strada facendo, il Sì a gamba tesa è stato addomesticato e incanalato da esperti tutt’altro che populisti in un primo passo riformatore. Auspicabile, però astratto: se le necessarie riforme di contorno (legge elettorale, regolamenti parlamentari, distinzione fra Camera e Senato) non sono state fatte finora, chi garantisce che avvengano in automatico, qui e prossimamente? L’elettore è chiamato a valutare la situazione di oggi, non una ipotetica. Davvero le riforme seguiranno come l’intendenza di Napoleone? Anche il No non appare netto, pure lui con molte domande. Una, forse, più di tutte: quella di un conservatorismo costituzionale, là dove sarebbe ritenuto necessario un processo riformatore, come si sostiene da decenni. Centralità del Parlamento da ricalibrare, nuova legge elettorale, superamento dell’anomalia italiana di due Camere che, in condizione di parità giuridica, svolgono le stesse funzioni legislative e di indirizzo e di controllo sul governo. Salvo pensare che il fronte del No ritenga intoccabile la Costituzione, nella parte che riguarda governo e istituzioni, e che, nel caso di questo referendum, la pezza sia effettivamente peggio del buco, per cui convenga ragionevolmente non toccare niente. Il punto centrale di questo referendum è che, benché circoscritto, può alterare gli equilibri istituzionali essendo sganciato da un riordino complessivo vero e proprio. La sforbiciata lineare innalza il rapporto fra eletti ed elettori con possibile sofferenza delle minoranze politiche e sociali. Per «Aggiornamenti sociali», la rivista dei gesuiti, l’aspetto della rappresentanza è centrale: «Le attese riposte nella riforma di un recupero di autorevolezza e credibilità del nostro Parlamento saranno vanificate se la prevista riduzione del numero dei parlamentari si traduce in un indebolimento del vincolo tra elettori ed eletti a causa della eccessiva grandezza dei collegi elettorali e della diversità sociale al loro interno, finendo così per alimentare ulteriormente le frustrazioni e i sentimenti di antipolitica già presenti nel Paese». Nel frattempo, senza scandalo, ognuno si pone ai propri posti di combattimento (oltre il merito del contendere) e i due carissimi nemici (Lega e Pd) condividono il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: all’occorrenza l’uno si prende la metà dell’altro. Il Sì flessibile di Salvini convive con il No dei colonnelli come Giorgetti: un po’ con una vittoria possibile, un po’ sfilando la bandierina ai grillini, un po’ cercando la spallata al governo. Il Sì condizionato di Zingaretti è obbligato dalla governabilità, ma se la deve vedere con il No dei padri fondatori e con la base dem che dovrà turarsi il naso. E comunque si misura con una cultura costituzionale dei 5 Stelle che, se esiste, è alternativa. Conte e Zingaretti si sono blindati con un patto di reciproca sopravvivenza e semmai il siluro arriverà da due Regioni: Toscana, che rappresenta la linea del Piave per il Pd, e Puglia. Il referendum costituzionale, come si vede, è già derubricato. Declassamento che indica un errore, in quanto le discussioni sull’atto fondativo di una comunità dovrebbero godere di una corsia preferenziale. Perché, come sottolineava anni fa l’illustre scienziato politico liberale Giovanni Sartori, le Costituzioni sono la casa di tutti: «Ogni cittadino è destinato a soffrire se la sua vita è regolata da un cattivo governo e da una cattiva politica. E le Carte costituzionali sono le strutture dalle quali dipende se saremo ben governati o mal governati». In definitiva: se domani ha da essere un caffè, sarà comunque amaro.

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