Regionali
e politica incerta

Visto lo sconquasso creato dal voto in Umbria, c’è da temere che il prossimo semestre sia un susseguirsi di altri continui scossoni. Sono ben otto infatti da qui alla prossima estate i Consigli regionali da rinnovare e, con un precedente tanto destabilizzante come quello di domenica scorsa, sono prevedibili turbamenti del quadro politico altrettanto destabilizzanti. A far crescere l’apprensione sulle prossime sfide elettorali non è solo il timore di nuovi sobbalzi, ma l’incertezza che si è creata nel quadro politico. Il voto dell’Umbria non solo ha costretto partiti e coalizioni a rivedere piani, strategie, alleanze, ma ancor più ha fatto accrescere l’apprensione sui risultati delle prossime sfide elettorali. Se il verdetto uscito dalle urne è stato inequivocabile, ancora imprevedibili appaiono infatti i suoi esiti.

Le urne hanno certamente sanzionato il riscatto di Salvini. Dopo il passo falso compiuto con l’affossamento del governo Conte era sembrato che il segretario della Lega fosse avviato al tramonto. Al contrario non solo è ritornato in sella, ma oggi più che mai è diventato la pietra di paragone di ogni futura scelta politica. La penitenza patita sembra peraltro avergli portato consiglio. Le sue prime uscite lasciano presagire che vestirà meno felpe e più grisaglie, frequenterà meno il Papeete e più il Parlamento, aspirerà meno a far l’uomo solo al comando e più il leader. Anche nel suo caso poi la forza riconquistata sembra avergli ispirato una maggiore fiducia nelle proprie possibilità. Che si voti col proporzionale o col maggioritario, per Salvini non fa differenza. Si sente comunque in una botte di ferro. Maggioranza ha e maggioranza dovrebbe mantenere sia che le varie forze del centrodestra si presentino separatamente che apparentate.

Le maggiori preoccupazioni sono per la coalizione giallorosa. Alleandosi, M5S e Pd hanno fatto – com’è risaputo – di necessità virtù. Necessità: scongiurare le elezioni anticipate che si annunciavano un trionfo per Salvini. Virtù: imbastire dall’oggi al domani un’alleanza tra nemici giurati. Solo che la necessità è di un momento, la virtù si acquisisce dopo un lungo tirocinio. Cancellare un passato di contrapposizioni frontali ed ingiurie («partito di Bibbiano», «partito del malaffare», «espressione di poteri forti») avrebbe richiesto un lungo percorso: prima di decantazione delle offese scambiate, poi di riscoperta di valori e programmi condivisibili. Si è preferito affrettare l’abbraccio tra promessi alleati che sino a ieri si erano trattati reciprocamente come il diavolo e l’acqua santa.

Inevitabile la bocciatura elettorale, soprattutto da parte dei grillini, educati come sono al culto della loro «diversità», al rifiuto pregiudiziale delle alleanze, da loro equiparate a una contaminazione con la casta. Il flop elettorale ha finito così per alimentare un clima di sfiducia nella possibilità di riproporre nelle prossime tornate elettorali liste unitarie. Non solo, ma ha prodotto anche pesanti ricadute sul governo, incoraggiando una rincorsa di tutti i partiti della coalizione a rilanciare sempre nuove correzioni ad accordi pur faticosamente pattuiti.

Del resto, non era difficile prevedere che il passaggio dal grilloleghismo al demogrillismo sarebbe stato quanto mai ostico, con il M5S impossibilitato a ricredersi su misure appena approvate in unità d’intenti con la Lega e il Pd in enorme imbarazzo a sottoscrivere queste stesse misure marchiate Salvini e per questo motivo fieramente avversate.

© RIPRODUZIONE RISERVATA