Resa dei conti agli
Stati generali dei 5 Stelle

Per decifrare quello che sta accadendo nel M5S all’avvio degli «Stati generali» del movimento che cominciano oggi e si concluderanno domani, servirebbe un aruspice, capace di predire il destino sulla base di un volo di uccelli o della caduta di un fulmine. Già, perché nel «movimento» il tutti contro tutti è ormai una tale consuetudine che cercare di capire come vanno le cose lì dentro è impresa, appunto, da indovini. L’unica certezza per il momento è che tutto l’ambaradan degli Stati generali servirà a mettere definitivamente in minoranza.

Alessandro Di Battista, detto «Dibba», il giovane e prestante capopopolo di Roma Nord (la zona della Capitale dove vivono i ceti borghesi) che si è intestato la battaglia del «ritorno alle origini». Per mettere all’angolo Di Battista è stato stretto un patto tra capi e capetti che, ognuno in concorrenza con l’altro, hanno in comune l’intenzione di liberarsi di uno che rinfaccia ai suoi compagni di strada (diventati ministri, viceministri, sottosegretari, boiardi di Stato, super consulenti di aziende pubbliche) la perdita dell’antica verginità politica. Che diventa immediatamente la contestazione dell’alleanza col Pd che un tempo era «il partito di Bibbiano» e che oggi invece è per Di Maio l’unica possibilità di rimanere al potere. Il Pd per Di Battista è rimasto quello che i grillini hanno sempre pensato che fosse quando sbeffeggiavano Bersani, Renzi, Gentiloni e tutta la compagnia del Nazareno. Di Maio viceversa non perde occasione per elogiare la collaborazione con «Nicola» (Zingaretti).

Così stando le cose, i capi hanno deciso che si farà un «direttivo» di 5-7 persone che di fatto segnerà il ritorno di Di Maio sul podio di numero uno, provvisoriamente ora occupato dallo scialbo Vito Crimi, il cireneo cui è stato affidato il compito di organizzare questi Stati generali. Che avviene tra le polemiche, naturalmente. Per esempio i «dibattistiani» vogliono sapere quanti voti hanno preso nelle votazioni di base (solo 26 mila su 151 mila iscritti) i 30 «relatori» che avranno il diritto di prendere la parola domani durante la fase finale della convention. Sono stati eletti punto e basta, è la risposta. «Ma noi - obietta Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia ed emarginato in quanto “ortodosso” - siamo pur sempre il movimento dello streaming e della trasparenza, non possiamo tradire noi stessi». Obiezioni che hanno scarso credito nel gruppo di testa. Che però ha un problema: come dribblare la regola del limite di due mandati per ciascun eletto. Seguendo la vecchia disciplina, alle prossime elezioni andrebbero a casa proprio tutti i capi, a cominciare da Di Maio. Che naturalmente a tutto pensa tranne che tornare a Pomigliano a casa di mamma e papà. Dunque gli Stati generali non voteranno sulla questione che verrà di fatto rimandata: tra due anni, quando la legislatura spirerà, se ne riparlerà e, con comodo, si potrà trovare un compromesso. Chi va per le spicce e non sente ragioni è il viceministro Cancelleri che ha già annunciato che per la terza volta correrà per la poltronissima di presidente della Regione Sicilia. Come lui vorranno fare tutti, da Fico alla Taverna, da Crimi ai ministri.

In tutto ciò, il problema di questo gruppo dirigente che si preoccupa soprattutto di regolare i conti interni e stabilire chi comanda e chi no, è che i voti (quelli veri, quelli degli elettori) diminuiscono drammaticamente: lontanissimi i tempi in cui il M5S era il partito di maggioranza relativa con oltre il 30% dei consensi. Ora in quasi tutte le regioni il movimento al massimo ha percentuali ad una cifra. Sarà anche per questo che da mesi ormai i gruppi parlamentari, soprattutto il Senato, subiscono una lenta ma inarrestabile emorragia: i parlamentari emigrano, sperando di trovare qualcuno che li faccia tornare a Roma da «onorevoli».

© RIPRODUZIONE RISERVATA