Riforme, un azzardo a ragion veduta

ATTUALITÀ. I precedenti non sono incoraggianti. Sono ormai quarant’anni che da varie parti si è tentato di modificare l’impianto istituzionale della nostra Costituzione e alla fine non solo non si è cavato un ragno dal buco, ma chi si è avventurato su questa strada s’è fatto solo male.

Ne sa qualcosa Berlusconi che s’è visto sconfiggere nel referendum indetto nel 2006. Non parliamo di Renzi che ha pagato un conto ancor più salato per aver osato intestarsi una revisione organica dell’architettura istituzionale della Costituzione. In un sol colpo ha perso presidenza del Consiglio e segreteria di partito. C’è da chiedersi a questo punto cosa abbia spinto Meloni a rimettersi su questa strada. Non solo il suo è un azzardo. Appare anche un’idea bizzarra: l’idea del presidenzialismo non scalda certo i cuori degli italiani.

Non si può negare comunque che il tema della riforma istituzionale resti un bel paradosso tutto italiano. Da un lato, non c’è nulla da noi di più popolare che denunciare lo scandalo del potere sottratto agli elettori di decidere i propri governanti. Dall’altro, non c’è nulla che appassiona meno di una proposta di legge che dia soddisfazione a questa rivendicazione. Nessun partito, peraltro, nega più che l’impianto istituzionale disegnato dai nostri padri costituenti sia ormai datato. Si pensi all’ultima legislatura. Abbiamo visto insediarsi presidenti del Consiglio nemmeno eletti (Renzi e Conte) e pure formarsi maggioranze, per così dire, à la carte: di destra, di sinistra e, per non perderci nulla, anche di solidarietà nazionale. Il tutto in barba al verdetto delle urne. Insomma, è universalmente riconosciuta la necessità di rendere il sistema di governo più stabile, efficiente nonché rispettoso della volontà popolare. Ciò nonostante, nessuno è riuscito nell’impresa. Non ultima ragione, questa, del favore che l’antipolitica riscuote in tempi recenti. Ci riprova ora Meloni, assumendo tutti i rischi che il tentativo comporta. Ma non alla cieca. A meno di considerare la sua iniziativa avventata, è presumibile che essa pensi di poter giocare le sue carte su due tavoli.

Primo tavolo. La premier, perfettamente consapevole che la proposta del presidenzialismo è irricevibile dall’opposizione, avrebbe deciso di alzare la posta per strappare alla fine un compromesso ragionevole che le permetta di far passare almeno alcuni dei principi base della sua riforma. Risultato: si potrebbe vantare di essere riuscita nell’impresa mai riuscita a nessuno: restituire ai cittadini il potere di nominare il capo del governo e rendere l’esecutivo stabile, in grado di attuare un programma di legislatura.

Secondo tavolo. Il tentativo di coinvolgere l’opposizione fallisce. La riforma sarebbe approvata a maggioranza semplice, il che implicherebbe l’obbligo di convocare un referendum confermativo. La trappola in cui sono caduti tutti i suoi predecessori, e cioè presentare la riforma come una riscrittura completa (sbrego?) della Costituzione. La premier, presenterebbe invece il provvedimento come un atto invocato dagli elettori per sottrarre ai partiti il mal tolto, ossia il potere di fare e disfare governi, in barba al potere sovrano del popolo. Nessun stravolgimento perciò della Costituzione. Nessuna deriva autoritaria. Semplicemente, il rispetto del principio base di una democrazia, ossia della sovranità popolare. Rivolterebbe in tal modo sulle opposizioni l’accusa di essere riformatrici a parole e conservatrici nei fatti.

Resterà sempre un azzardo, e come tale a rischio fallimento, ma è un azzardo affrontato a ragion veduta. Sarà anche una manovra di distrazione di massa, ma le serve per mettere l’opposizione in difficoltà perché la costringe a giocare di rimessa, evidenziando di fronte all’opinione pubblica che è non solo divisa ma anche priva di un progetto alternativo di riforma. La partita è appena cominciata.

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