Rimuovere l’inflazione, interesse dei più deboli

ECONOMIA. Era evitabile l’aumento dei tassi di interesse deciso ieri dalla Bce? L’incremento di 0,25 punti potrebbe essere l’ultimo di questa fase di contrasto all’inflazione, ma forse era evitabile.

La Bce è consapevole che la stretta monetaria sta iniziando a rallentare l’economia. La previsione attuale è di una crescita dello 0,7% nel 2023 che dovrebbe ritornare all’1% nel 2024 e poi un poco oltre negli anni successivi. Fortunatamente, l’occupazione rimane forte, anzi, con aree di carenza duratura di lavoratori. L’inflazione, invece, cala troppo lentamente perché sta viaggiando ancora al 5,6% per scendere al 3,2% nel 2024. Solo nel 2025 dovrebbe raggiungere il livello obiettivo che si colloca stabilmente al 2%.

La Bce constata che la terapia anti inflazione sta finalmente avendo effetto e ritiene di insistere su questa strada per debellare definitivamente il problema. Usa il metodo degli antibiotici: non si può sospenderne l’assunzione alla prima remissione dei sintomi ma bisogna completare la fase di eradicazione della malattia. Per questo mantiene una condotta molto rigida, benché forse il 4,25% potesse bastare: è difficile individuare una soglia precisa del tasso di interesse di equilibrio. Per quanto sofisticati possano essere i modelli econometrici, c’è sempre la dimensione politica che rende più complicata la valutazione della scelta più opportuna.

Ci sono due ordini di considerazioni da svolgere a questo punto. La prima è che l’asprezza della politica monetaria in questa fase finale (speriamo) del ciclo inflazionistico riflette il ritardo con cui è stata avviata l’azione di contrasto alla crescita dei prezzi. Lagarde ha recentemente ammesso la sottovalutazione del problema al suo affacciarsi alla fine del 2021, quando fu interpretata come un fenomeno temporaneo e quindi tollerata oltre il necessario. Ecco perché occorre prolungare la fastidiosa terapia degli alti tassi di interesse: perché è iniziata tardi.

La seconda considerazione è che sorprende l’avversione che tutta la politica riserva al rigore di Francoforte, continuando a rimproverare l’errore dei tassi troppo alti. Intanto sono davvero pochi coloro che possono ergersi a giudici credibili di quelle decisioni, e non sono fra chi alimenta il vociare su questo tema. L’avversione all’aumento dei tassi sorprende perché oscura del tutto il sostegno che va dato alla lotta all’inflazione. Perché se è vero che la politica monetaria restrittiva è negativa per le imprese, soprattutto quelle più fragili e indebitate, e causa un rallentamento dell’economia, non è meno vero che il prezzo dell’inflazione lo pagano i cittadini (e le imprese) più deboli: i percettori di reddito fisso medio e basso, i pensionati che non possono sperare in alcun recupero del potere d’acquisto, i lavoratori precari e gli autonomi che non possono adeguare i loro guadagni ai prezzi crescenti, i risparmiatori che vedono erosi i loro sacrifici.

Perché non si sente nessuno reclamare la necessità di difendere queste categorie, peraltro molto numerose? Si invoca solo una nuova ondata di sussidi pubblici e bonus da parte dello Stato, che di risorse non ne ha e deve prenderle a prestito a tassi ovviamente sempre più cari. Perché svenarsi concedendo aiuti alle famiglie (cosa certamente nobile) invece che combattere la causa del loro impoverimento? Manca nella cultura corrente la consapevolezza dei danni irreversibili e iniqui dell’inflazione, ed ecco perché è mal sopportata la medicina che bisogna assumere.

Forse la Bce ha agito con ritardo, sia all’inizio che alla fine di questa fase, ma bisogna sostenere il suo impegno a rimuovere la più iniqua delle tasse, l’inflazione appunto, nell’interesse delle fasce più deboli.

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