Rispecchiare il pluralismo, l’incapacità dei partiti

Con un progetto di riforma costituzionale, Giorgia Meloni rilancia il tema del presidenzialismo. E lo fa a partire dalla constatazione di un’evoluzione di fatto (al di là delle regole) in tale direzione che la leader di FI ha colto nei più recenti passaggi istituzionali e della crisi della rappresentanza e della mediazione partitica in Parlamento.

Difficile negare la plausibilità, almeno parziale, di questi presupposti: da un lato, l’ampliamento ben visibile dell’influenza presidenziale nelle recenti crisi di Governo, grazie all’elasticità (a fisarmonica) dei poteri attribuiti al Capo dello Stato dalla Costituzione; e ancor più il degrado della mediazione parlamentare incarnata dai partiti. Le vicende della rielezione del presidente Mattarella (che ritengo una soluzione costituzionalmente problematica) hanno confermato queste difficoltà. Come «ricetta», la Meloni propone un presidenzialismo esplicito e costituzionalmente disciplinato. Va detto che la soluzione presidenziale non è certo eversiva, né può essere liquidata come malcelata nostalgia totalitaria.

Negli Stati Uniti, che del presidenzialismo sono l’archetipo positivo, l’elezione (semi) diretta del presidente è in funzione di una rigorosa logica di separazione dei poteri, volta a bilanciare (con un sistema di pesi e contrappesi) il possibile abuso anche dell’organo legislativo. Non avendo mai attecchito oltre-oceano la mistica del legislatore rappresentante della volontà generale, l’elezione diretta, tanto del presidente quanto del Congresso, serve a dotare ciascun organo di un’eguale e simmetrica legittimazione popolare, di modo che l’uno possa bilanciare l’altro e ne tragga vantaggio l’istanza liberale di moderazione complessiva del potere. Insomma: negli Usa il presidenzialismo è una tecnica di limitazione del potere e non, come a volte sembra si auspichi da noi, lo strumento di una sua concentrazione che risolva le difficoltà della mediazione e della decisione politica.

Inoltre, l’elezione diretta colorerebbe fatalmente - a seguito di una campagna elettorale - il presidente di una tinta politica, pregiudicando le funzioni di garanzia super partes e di custodia della Costituzione che gli sono ora affidate. L’elezione a scrutinio segreto e senza candidature formalizzate da parte del Parlamento, attualmente prevista, mira proprio a garantire l’esito della non riconducibilità del presidente a qualsivoglia maggioranza. L’unità nazionale che il presidente deve rappresentare è infatti di tipo repubblicano e cioè deve incarnare la natura pluralistica del popolo, articolato in autonomie sociali e territoriali. Non è un’unità sintetica che elida le differenze e le risolva (come poi?) entro una volontà singolare. Per questo, all’elezione del presidente concorrono anche delegati regionali, a incarnare la proiezione repubblicana che il Capo dello Stato deve custodire: egli non è un risolutore solitario, ma il garante di un’unità plurale, il tessitore paziente della leale collaborazione tra le istituzioni della Repubblica delle autonomie.

Se dunque si deve condividere la critica espressa dalla Meloni circa la qualità spesso davvero scadente della mediazione parlamentare, ciò non dipende da un eccesso di pluralismo, ma, all’opposto, da un difetto, e cioè dall’incapacità ormai drammatica dei partiti di rispecchiare le differenze vitali che animano il popolo e di accompagnarle non a soluzione, ma a un reciproco riconoscimento, dialogo e cooperazione. Anziché un’impossibile e ambigua reductio ad unum del pluralismo entro una figura monocratica, io credo che la Repubblica attenda che la ricchezza delle articolazioni plurali del popolo trovi nei partiti e nelle istituzioni una veste più credibile e accogliente.

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