Rispettare i numeri, un dovere dei governi

ITALIA. Nel momento dell’unificazione nazionale la statistica pubblica godeva di un notevole prestigio e i governi del primo decennio unitario tendevano a favorire la conoscenza dei dati statistici per orientare l’azione di governo in un Paese che ereditava i sette Stati pre unitari.

Una delle ragioni principali del «buon nome» della statistica italiana come strumento essenziale delle scelte politiche fu la tradizione degli studi di Gian Domenico Romagnosi e di altri studiosi e diritto e di economia. Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento il filosofo e giurista rappresentò il riferimento quasi obbligato delle nascenti forze liberali del Risorgimento italiano. Alla base delle sue analisi vi era la convinzione del necessario rapporto tra scienza statistica e scienza dell’amministrazione come presupposto del «conoscere per governare». Sulla sua scia si mossero i protagonisti della lotta per l’unificazione nazionale. In tutti gli Stati pre unitari vennero costituiti uffici di statistica, collegati in ciascun Paese, incardinati normalmente in un ministero custode delle funzioni di tutela dell’agricoltura, del commercio e della nascente industria. Nei primi decenni unitari - pur tra oscillazioni e modifiche - la funzione statistica divenne uno dei pilastri per l’orientamento dell’attività di governo.

Nelle grandi trasformazioni sociali e politiche dei primi decenni del ‘900 si manifestarono difficoltà derivanti dalla insufficienza dei rapporti tra le strutture statali e quelle territoriali. Per risolvere tale scompenso nel 1926 fu creato un Istituto nazionale di statistica esterno ai ministeri. Tale soluzione è rimasta invariata e l’Istat resta la voce ufficiale dello Stato in materia. Con la nascita della Repubblica le responsabilità politiche dei partiti nell’azione di governo trovano una necessaria sponda nei dati statistici. Richiamarsi, di volta in volta, all’Istat è materia di ricerca del consenso. Tale indirizzo non è di per sé un fatto negativo, ma finisce per esserlo allorché si evidenzia un utilizzo parziale e poco corretto degli elementi conoscitivi messi in mostra dai dati statistici. Tale andamento non può non preoccupare, per le derive che hanno assunto le modalità di utilizzo le informazioni elaborate dall’Istituto nazionale di statistica e sottoposte alle valutazioni del governo, delle forze politiche, dei gruppi di pressione, dei singoli cittadini. Negli anni che stiamo vivendo sembra essersi aperto un libero mercato sulla statistica. Ognuno interpreta i dati a modo suo.

A guardare con obiettività come il governo e parte del mondo dell’informazione utilizzano la mole di elaborazione proveniente dall’Istat è lecito concludere che il sano principio che indica la necessità di «conoscere per governare» si sia trasformato del suo opposto: disconoscere per governare. Tale modalità si può utilizzare (e viene utilizzata) con vari sistemi. Il più diffuso è distorcere le elaborazioni dell’Istat, mettendo insieme le pere con le mele. Altre volte basta citare soltanto una parte dei dati pubblicati e diffusi dall’Istituto per ottenerne una conclusione distante dalla realtà. È un metodo che sta diventando il criterio guida dell’attuale governo. Molte delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e di numerosi ministri traboccano di trionfalismo, ovvero addossano ritardi e inadempienze nelle scelte di governo agli esecutivi precedenti. Le preoccupanti condizioni della sanità pubblica, l’esistenza di livelli salariali indecenti, la stasi della produzione industriale, ed altre carenze, sembrano non ledere incrollabili certezze del governo. Sistema ad oggi imperante, ma non invincibile. Occorre non dimenticare - affermava il secondo presidente degli Usa, John Adams - che «i fatti sono argomenti testardi».

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