Salvini e Meloni, alleati ma ognuno per la sua strada

C’è chi ha notato che ieri, al dibattito del Forum Ambrosetti a Cernobbio, quando Matteo Salvini ha cominciato a ripetere la sua tradizionale filippica contro le sanzioni alla Russia «che danneggiano più noi che Mosca», Giorgia Meloni – che gli sedeva accanto – si è messa le mani sugli occhi.

Che fosse o meno un gesto plateale di dissenso (come peraltro pressocché tutti lo hanno interpretato), sono state le parole pronunciate dalla leader di Fratelli d’Italia a segnare la più netta distinzione dalle posizioni dell’alleato leghista. Meloni ha elencato con puntiglio: sì alle sanzioni alla Russia, sì al sostegno all’Ucraina, sì alle armi a Zelensky, no a qualunque scostamento della politica estera italiana che deve restare atlantista, fedele alla Nato ed europeista. C’è poco da interpretare: i due partner di un possibile futuro governo di centrodestra vanno ognuno per la propria strada. Soprattutto in politica estera ma non solo.

Rimanendo per un attimo sul primo tasto dolente, basti osservare che a Salvini poco importa che lo si consideri alleato di Putin (questo lo è ufficialmente, da quando la Lega sottoscrisse un patto formale di mutuo sostegno col partito dell’autocrate russo) e si maligni sui rapporti con questo o quel potentato moscovita; mentre la Meloni è viceversa impegnatissima a rassicurare – non a caso le parole sopracitate sono state pronunciate di fronte al meglio del meglio della nostra classe imprenditoriale, finanziaria, bancaria, ecc. – sulla propria affidabilità interna e internazionale, bene accetta ai poteri che tradizionalmente sovrintendono alla nostra vita politico-istituzionale. Tanto è vero – e questo è il secondo aspetto del dissenso da Salvini – che la possibile nuova presidente del Consiglio è nettamente contraria, come Draghi, a fare nuovo debito per contrastare il caro energia e a introdurre riforme fiscali simili «a promesse che non si possono mantenere». Guarda caso proprio i due cavalli di battaglia della Lega: Salvini chiede 30 miliardi in più per far fronte al caro-bollette e Flat tax per tutti, compresi i dipendenti. Sono posizioni, quelle della Meloni, che rilassano chi ci guarda da Bruxelles, da Francoforte, dalle piattaforme degli investitori timorosi di un governo di destra-destra più che di centrodestra alla Forza Italia. Che poi la Meloni debba mettere la sordina non solo alla sua inesperienza di governo ma soprattutto ai suoi innamoramenti per Orban, l’ungherese filo-putiniano, per la destra spagnola di Vox e per Marie Le Pen, è cosa che riguarda più che altro la polemica politica dei suoi avversari, da Letta a Calenda a Conte. Quanto a Draghi, se deve parlare contro qualche proposta di campagna elettorale, lo fa contro le posizioni alla Salvini mentre sulla Meloni in pubblico tace e in privato, si dice, consiglia e avverte. Tant’è che gira voce di una possibile candidatura di Fabio Panetta, un Draghi-boy della Bce, ex Banca d’Italia, come ministro dell’Economia.

La domanda che ci si fa è sempre la solita: come faranno a governare insieme, Meloni e Salvini? E cosa farà Berlusconi? Come sempre, la chiave del futuro sta nei numeri: se la vittoria di Fratelli d’Italia sarà straripante, Lega e Forza Italia non potranno condizionare granché la loro alleata, almeno all’inizio e dovranno rassegnarsi alla sua premiership. Se invece Berluconi e Salvini riescono a recuperare un po’ di voti che ne aumenti il peso nella coalizione, si possono aprire altri scenari. Se poi davvero non si trovasse un accordo nel centrodestra, c’è chi si esercita nell’arte aruspicina e vede ipotetici governi di unità nazionale cui Berlusconi potrebbe aderire. A patto naturalmente che il Pd, e non FdI, risulti primo partito del nuovo Parlamento.

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