Sanzioni, una scelta politica di campo

Esteri. Sulla fornitura di armi all’Ucraina si può essere in accordo o in disaccordo ma su un punto concordano tutti: se attivate in modo sapiente sul campo sono efficaci. Non lo stesso può dirsi delle sanzioni economiche.

Quanto meno a breve termine. Il Fondo Monetario Internazionale prevede entro il prossimo anno una crescita del Pil russo del 2,1% contro un misero 1,4% della Germania. Mosca ha diversificato le sue linee di approvvigionamento con Cina, Iran e India che ambiscono alle sue materie prime. L’Europa invece ha dovuto rinunciare alle forniture di combustibile russo e deve importare dagli Stati Uniti gas per nave a costi elevati anche se ora per fortuna mitigati. Il tetto al prezzo del gas, voluto in primo luogo dal governo Draghi, comincia infatti a funzionare. Per l’Iran il Fmi prevede al 2027 una crescita del Pil da 1.690 a 1.980 miliardi di dollari. Uno sviluppo non insignificante per un Paese isolato e sotto scacco economico internazionale.

L’India con l’Iran e la Turchia hanno aumentato i rapporti economici con Mosca e costituiscono la grande alleanza economica del momento. Al centro di tutto è la Cina che a sua volta trae vantaggio dalla sua posizione strategica consapevole di essere la grande potenza contraltare degli Stati Uniti. Non a caso alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha rinfacciato alla Cina il partenariato economico con la Russia. Prima di avanzare proposte di pace dia un segnale di sganciamento da Mosca e cessi di sostenerne la tenuta, l’ammonimento di Washington. Per gli americani da sempre l’economia è al primo posto. Le sanzioni nascono con il presidente americano Woodrow Wilson che nel 1910 le dichiarò l’arma migliore per condurre una guerra. Un’arma indolore, silenziosa, pacifica ma mortale senza dover ricorrere all’impiego delle forze armate. Un solco tracciato nel tempo e praticato da molti suoi successori. Solo per rimanere al recente passato, come riportato da The Pioneer, quando al ministro del Tesoro dell’amministrazione Trump venne chiesto cosa intendesse fare per bloccare la Turchia che in quel momento minacciava i curdi in Siria, Steven Mnuchin rispose : «We can shut down the Turkish economy» (possiamo bloccare l’economia turca).

E del resto George W. Bush in otto anni ha attivato 3.484 sanzioni contro Stati o aziende o singole persone. Biden ne ha già attivate 70 che colpiscono però 9.000 soggetti, dagli Stati alle organizzazioni alle imprese ai singoli individui. Si veda il testo «Backfire» di Agathe Demarais.

Certo la sanzione economica è la via più facile per evitare un coinvolgimento armato e l’invio di truppe sul terreno. In fin dei conti l’Unione Sovietica è crollata perché non più in grado di sostenere il confronto economico con l’Occidente. A lungo termine le sanzioni agiscono e gli effetti si vedono meglio se si spariglia il campo avverso. Per far questo vi è però una sola arma: l’unità del fronte occidentale. E nell’ immediato le sanzioni sono proprio questo che ottengono. Esse infatti colpiscono le economie dei Paesi alleati prima ancora di quelli nemici e le costringono a muoversi verso i mercati americani. Esemplare il caso delle importazioni Lng-Gas raddoppiate dal gennaio a dicembre dello scorso anno.

Senza contare le sovvenzioni al made in Usa (Ira) che rendono più conveniente per le industrie europee investire in America. Poi si arriverà a lenire i danni per l’industria europea ma il risultato è ottenuto. Gli alleati fanno corpo con la loro nazione leader. Le sanzioni sono quindi per gli europei un fatto politico prima ancora che economico. Posti al bivio della storia devono scegliere tra Est e Ovest. Ed è questo il motivo per il quale tutti le accettano.

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