Scuola in agonia ma senza conoscenza...

Il quadro del sistema scolastico italiano tratteggiato martedì mattina dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi davanti alle Commissioni congiunte di Camera e Senato non stupisce più di tanto. Resta tuttavia lo sconforto per un Paese come l’Italia che, nel 2021, non riesce ancora a dare uguali opportunità formative ai nostri ragazzi. Disuguaglianze, dispersione, povertà educativa segnano in maniera profonda e negativa un modello non più funzionale non solo alla crescita della nazione, ma anche alla formazione di una classe dirigente degna di questo nome. Ci si poteva pensare già 40 anni fa, quando le conseguenze della delegittimazione nei confronti di una scuola fatta di impegno e di sacrificio a favore di una non ben definita democrazia scolastica, unita ai primi «tagli» al sistema, rendevano già evidenti le profonde crepe apertesi nell’istruzione italiana.

Ferite mai sanate, ma, al contrario, lasciate in balia di continui e nuovi agenti patogeni che ne hanno via via peggiorato lo stato di salute, fino ad arrivare alla situazione attuale. Che oggi lo si denunci in una Commissione bicamerale va anche bene, dopo di che il danno al Paese è stato – e continuerà ad esserlo ancora per chissà quanto tempo – enorme. Non serve solo una profonda riforma della macchina amministrativa che governa la scuola, ma della Scuola in quanto tale, ripartendo dai contenuti e dal «lessico» da utilizzare con una generazione di studenti che non ha più nulla in comune con quella di mezzo secolo fa.

Eppure, in Italia, oggi viviamo un vero e proprio paradosso: non siamo mai stati così scolarizzati, ma, nel contempo, non siamo mai stati così ignoranti. Decenni fa c’era l’alibi di non essere andati oltre la 5ª elementare, oggi invece, quando almeno il diploma di 3ª media lo possiede più della metà della popolazione, una larghissima fetta di italiani (in primis proprio gli studenti) leggono poco e male, non sanno scrivere se non qualche banalità via social, e, soprattutto, non sanno interpretare la realtà che sta loro attorno.

Non aiuta, nonostante ogni volta si sostenga il contrario, l’atavico “scollamento” tra le diverse materie d’insegnamento (la Storia separata dalla Geografia, la Matematica dalla Fisica o dalla Chimica, e via di questo passo) proprio quando il Covid ha insegnato che tutto è ormai connesso. Oggi è necessario dare un minimo di senso complessivo a ciò che viene spiegato nelle aule (anche a distanza) e il fatto che i giovani siano ipertecnologici non fa altro che allontanare sponde che invece dovrebbero toccarsi. Com’è facilmente dimostrabile entrando in un qualsiasi social, l’ignoranza diffusa viene proprio dalla Rete, lasciando soprattutto i giovani (salvo lodevoli eccezioni) in balia di una navigazione pericolosa e improduttiva, perché privi delle mappe necessarie per muoversi adeguatamente in acque così burrascose.

La Rete sembra «democratica» perché dà lo stesso spazio ai Nobel e agli imbecilli. Il problema è che mentre i Nobel hanno le competenze per occupare lo spazio concesso loro dalla Rete ma non hanno il tempo per farlo, gli imbecilli tanto cari a Umberto Eco hanno il tempo per occupare lo spazio della Rete, ma non ne hanno le competenze. L’aggressività dell’ignoranza che popola tutto ciò che «naviga» nasce da questa semplice «equazione» spazio/tempo. Ma c’è un altro problema, quello legato alla gravità dei danni che è in grado di provocare, inversamente proporzionale alla semplicità con cui li produce.

Oggi, a differenza di quanto accadeva in anni lontani, dobbiamo insegnare ai nostri giovani a riflettere, a documentarsi, ad usare la testa e tutte le sue potenzialità. E a chi, se non alla scuola, tocca insegnare ai ragazzi la capacità di connettere quello che si impara in classe con quello in cui si imbattono fuori dalle aule? Anche perché la rivoluzione tecnologica che in tempi rapidissimi ha investito il pianeta ci impone inesorabilmente di rivedere la nostra capacità di apprendere. Per certi versi, è tutto da re-imparare: non siamo più abituati, ma la realtà è che dobbiamo imparare ad imparare, un’altra volta.

Se è vero che il motore dell’economia digitale sarà la conoscenza, l’Italia ha già perso la sfida. Ci piaccia o no, viviamo in un Paese in via di sottosviluppo. Il 47% degli italiani è «analfabeta funzionale», non riesce a compiere un ragionamento complesso né a cogliere i concetti che ascolta o che legge: li capisce, ma non li comprende. Vive con solo 2.000 parole, che bastano per «sopravvivere bene» ma non sono sufficienti per fare un ragionamento complesso. È dunque incapace di cogliere l’essenza di un mondo sempre più complesso, pur avendo la sensazione di capire tutto con un click, continuando a semplificare. Il problema è che a furia di semplificare, non c’è più nulla da comprendere, e dunque non si è compreso nulla.

Investiamo poco in formazione, non leggiamo libri, men che meno i giornali (vogliamo un’informazione gratuita, ma se non «costa», non ha valore, in tutti i sensi) e in televisione regna sovrano il trash. Cosa possiamo pretendere allora? Un altro paradosso del nostro sistema formativo e scolastico è che, per tamponare le esigenze di laureati nel mondo del lavoro, finiamo con l’importarne di meno preparati dall’estero, esportando invece i nostri laureati migliori, che, mal pagati e con pessime possibilità di carriera, preferiscono andarsene lontano dall’Italia.

Senza competenze, dunque, non c’è crescita. Per la nostra Scuola serve un investimento di lungo periodo e le linee programmatiche presentate dal ministro Bianchi sembrerebbero andare in questa direzione. Quarant’anni dopo, però. E in tempi di emergenza...

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