Se Draghi rilancia il progetto europeo

MONDO. Nel discorso sullo Stato dell’Unione tenuto al Parlamento europeo lo scorso 13 settembre, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dato una notizia inattesa alla quale i soggetti istituzionali europei e nazionali non hanno dato sufficiente rilievo: «Queste tre sfide - manodopera, inflazione e contesto imprenditoriale - affiorano mentre chiediamo all’industria di guidare la transizione pulita.

Nel frattempo, dovremo essere più lungimiranti e definire un modo per salvaguardare la nostra competitività. Ecco perché ho chiesto a Mario Draghi, una delle più grandi menti dell’Europa in materia economica, di preparare una relazione sul futuro della competitività europea. Perché l’Europa farà tutto il necessario, costi quel che costi, per mantenere il suo vantaggio competitivo».

Per comprendere nelle sue pieghe più profonde l’abile mossa politico-istituzionale di von der Leyen, subito accolta da Draghi, è opportuno rifarsi a un’intervista rilasciata proprio da quest’ultimo pochi giorni prima, il 6 settembre, sull’edizione online dell’«Economist». Rivelando ancora una volta tutto il suo impegno per vedere realizzato il progetto europeo ha, tra l’altro, detto: «Le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili». Sul fronte delle politiche di bilancio ha poi rincarato la dose affermando come l’errore più grave sarebbe ora quello di rifarsi alle vecchie regole sospese durante la pandemia. L’Europa può cambiare passo e peso specifico nel mappamondo socioeconomico ed ecosostenibile globale solo qualora riesca celermente a varare quegli investimenti comunitari non più procrastinabili come la difesa, la transizione verde, la digitalizzazione.

Ed ecco allora perché sempre Draghi continui a porre l’accento sul fatto che non disponiamo ad oggi di una strategia federale europea che possa finanziare tali progetti. Né, tantomeno, di politiche nazionali che possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente. Il rischio da lui paventato senza mezzi termini è dunque quello di trovarci tutti al cospetto di un’Europa debole, incapace di raggiungere i propri obiettivi climatici e di garantire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini, senza neppure una solida base industriale in grado di competere con altre realtà che impongono vincoli assai meno stringenti. Non è certo la prima volta che Draghi mette in evidenza come l’Ue e l’Eurozona necessiterebbero di politiche economiche unitarie dotate di strumenti per l’economia reale (innovazione e imprese) e per l’economia finanziaria (Eurobond) certamente più autonome rispetto ai vari coordinamenti tra Stati membri: «Occorre mettere in comune più sovranità per arrivare a un processo decisionale centralizzato nei settori cruciali della politica economica».

Pur sottolineando soddisfazione e orgoglio nazionale per il nuovo incarico conferito a un economista di primaria autorevolezza qual è Draghi, la premier Meloni e altri esponenti del governo si sono ben guardati dall’entrare nel merito dell’intervista da lui rilasciata all’«Economist». Se l’avessero fatto si sarebbero trovati d’accordo solo sulla necessità di realizzare una revisione dei trattati, ma non avrebbero certamente condiviso che, per raggiungere tale obiettivo, vi è alla base soprattutto la necessità di realizzare una più compiuta «sovranità europea». Quella sovranità in più occasioni osteggiata dalle destre europee e dai maggiori esponenti del partito conservatore europeo, di cui Giorgia Meloni è presidente.

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