Se giustizia e diritto dimenticano l’amore

MONDO. Più che la pietà, poté il diritto. Un diritto (il gioco di parole è voluto) di cui la piccola Indi - la bimba inglese di 8 mesi spentasi in un Hospice di Nottingham - è stata brutalmente privata per decisione dell’Alta Corte di Londra, il massimo grado di giustizia dell’ordinamento inglese.

Ma si può davvero parlare di diritto e di giustizia in una vicenda come questa? È una società civile quella in cui dei medici prima e dei giudici poi hanno emesso un’inappellabile condanna a morte verso una vita fragilissima, nei confronti della quale l’imperativo di tutti doveva essere uno soltanto, quello di tutelarla? È una società civile quella in cui il diritto di decidere la vita o la morte di un uomo - in questo caso di un bambino, e di un bambino malato - è nelle mani di un tribunale? È una società civile quella in cui ad appellarsi al giudice perché a qualcuno venga tolta la vita sia un gruppo di medici?

Domande che non possono e non devono restare sospese a mezz’aria, ma alle quali bisogna avere il coraggio di rispondere con una parola sola: no, una società che sceglie questa strada, che non protegge fino allo stremo una vita inerme, non può essere definita civile. Della malattia di Indi sappiamo poco o nulla, lo stesso dicasi delle reali conseguenze che tenerla attaccata a una macchina le provocava, e idem su quanto avrebbe potuto vivere ancora. Riassumendo, dunque, la bimba aveva certo una prognosi infausta, ma non era una malata terminale, non aveva particolari «stress» da macchine (o comunque non così evidenti) e non aveva una data «certa» di morte, che - per alcuni - avrebbe potuto spingersi anche in là di un paio d’anni. Forse, allora, tutta questa fretta di porre fine alla sua esistenza terrena non c’era. Sarebbe cambiato qualcosa ricoverarla al «Bambin Gesù»? Forse no, ma non lo sappiamo e - purtroppo - non lo sapremo mai.

Quel che per la terza volta in pochi anni è successo Oltremanica apre inesorabilmente scenari di disumanità che la nostra civiltà non può e non deve tollerare. Ancora una volta si va ben oltre l’accanimento terapeutico che si vuole contestare nei confronti della piccola Indi, e la questione, a ben vedere, non è nemmeno di natura confessionale. Ancora una volta si vuole insinuare un principio terribile secondo cui una malattia inguaribile e una malattia incurabile sono la stessa cosa e, dunque, se non si può guarire, tanto vale smettere di prendersene cura, tanto vale sopprimere chi ne soffre, in una sorta di «rupe di Taigeto» dei tempi moderni. Ma non è vero, non è così, perché tutto ciò che è inguaribile è comunque curabile. Magari non con i farmaci, il bisturi o le terapie geniche, ma con l’amore, con la compassione, con l’antica «pietas» di Virgilio e di Enea, che dovrebbe essere radicata nel cuore di ciascuno di noi. Purtroppo non è così, o - peggio - non è più così, perché c’è stato un tempo in cui l’uomo non veniva mai meno al valore della solidarietà e della prossimità, anche se in cima allo sgabello più alto di un tribunale.

La fine di Indi sarà anche stata inevitabilmente segnata, ma al suo ultimo respiro si sarebbe dovuti arrivare con l’umana comprensione del dolore di un padre e di una madre, qui costretti a perdere ciò che di più caro hanno due genitori, il frutto del loro amore, il proprio figlio. Ancora un volta - e senza un perché - da tutta questa vicenda si è voluto tener fuori le uniche due cose che invece avrebbero dovuto essere la sola bussola da seguire: l’amore e la misericordia.

Ma a tutela di chi il giudice ha disposto che il trasferimento della bimba in Hospice venisse fatto sotto scorta? Forse della propria coscienza. Perché nemmeno la richiesta di poter far morire la piccola Indi tra le mura di casa è stata accolta, un ultimo schiaffo che la «legge» inglese ha voluto dare a mamma e papà. Come avranno vissuto le ultime ore della loro piccola non è umanamente immaginabile. Quale dolore, quale angoscia, quale strazio avranno provato. Oggi covano dentro di sé rabbia e vergogna per come sono andate a finire le cose, ma chi li proteggerà dal senso di rimorso di cui potrebbero essere ingiustamente preda domandandosi, un giorno, se avrebbero potuto fare di più per la loro bambina?

E lei, la piccola Indi? In pochi istanti non avrà più sentito attorno a sé il calore di una carezza, di un bacio sulla fronte, di un dito stretto in una grande mano. E si sarà chiesta cosa stava accadendo, senza avere una risposta. Hanno costretto le mani di mamma Clare e di papà Dean ad aprirsi, a lasciare andare il loro splendido «aquilone» (come a Madre Teresa piaceva definire i figli), per il quale chissà quali sogni grandi avranno sognato. C’è un dolore più grande?

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