Se la Cina controlla
le aziende strategiche

Le mascherine e i vaccini stanno salvando l’umanità dalla pandemia. Cosa ci salverà dal riscaldamento globale? I pannelli solari. Sono loro le mascherine della nuova battaglia contro la pestilenza del cambiamento climatico. La cosa che hanno in comune questi due simboli della lotta contro i mali della modernità è che entrambi vengono prodotti in Cina. ll 90% della fornitura globale del settore viene da imprese cinesi, di fatto gli unici interlocutori del mercato. I prezzi del prodotto nell’ultimo decennio sono crollati del 75% , difficile per un’impresa occidentale tenere il passo. Il governo tedesco dopo la caduta del muro di Berlino, trentun’anni fa, aveva puntato sulla componentistica dei pannelli solari per dare una prospettiva alla ricostruzione della Germania Est. Ha raccolto solo cassa integrazione e poi lo smantellamento del settore.

Gli effetti distorti di una globalizzazione avviata esattamente vent’anni fa con l’ingresso della Cina nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio) giungono a maturazione. Anziché graduare nel tempo e permettere alle industrie occidentali di far fronte alla concorrenza dell’Oriente si è scelto la liberalizzazione selvaggia. I costi sociali ed economici in Occidente si stanno ancora pagando.

Ma perché questa sproporzione apparisse in tutta la sua complessità c’è voluta la geopolitica. Al G7 in Cornovaglia i leader occidentali e il Giappone si sono posti la seguente domanda: è possibile portare avanti la lotta al cambiamento climatico sapendo che per un qualsiasi motivo il maggiore fornitore sul mercato può boicottare i piani di rilancio economico? La transizione energetica è strategica per il cambiamento climatico ma lo è altrettanto per la competitività e i posti di lavoro. Il 60% del commercio internazionale è composto da beni e servizi intermedi. Vuol dire che gli Stati si scambiano prodotti semilavorati da un sito produttivo all’altro alla costante ricerca del luogo più conveniente. Il risultato è che al centro della catena del valore è balzata la mobilità. Succede un evento imprevisto ed ecco che in crisi va tutto il pianeta, dalla produzione ai consumi. La pandemia lo ha dimostrato e lo sta dimostrando con le mascherine e poi con l’aumento dei prezzi. Nel canale di Suez è bastato, nelle settimane scorse, l’incaglio di una nave per bloccare interi settori produttivi. L’interconnessione del mondo sta facendo emergere il lato oscuro della globalizzazione: determina dipendenza. Se il fornitore appartiene ad uno Stato o sistema politico contrario ai presidi della democrazia il pericolo è di vedere esposta la propria sovranità ai ricatti di una potenza ostile e con ambizioni egemoniche. Lo Stato cinese finanzia e controlla le aziende a carattere strategico.

Tutto questo ha una sua proiezione negli equilibri interni dei singoli Paesi concorrenti. Joe Biden sa quanto la presidenza Trump sia figlia di un ceto medio americano annichilito dalla distruzione di posti di lavori e di luoghi di produzione. La risposta alla globalizzazione viene dunque dalla regionalizzazione della catena produttiva in aree tra loro compatibili e assimilabili. In Nord America l’accordo commerciale tra Canada, Usa e Messico denominato Usmca, che fa seguito al Nafta, di fatto rende il blocco continentale nordamericano autosufficiente in alcuni settori produttivi. L’amministrazione del nuovo presidente americano cerca di rafforzare i rapporti con l’Unione Europea, con il Giappone e gli altri Stati asiatici a vocazione democratica. Il senso è chiaro. Definire aree omogenee di produzione anche per evitare paradossi: alcuni pannelli solari cinesi sono generati con l’utilizzo di energia elettrica da centrali a carbone.

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