Se la scuola non aiuta più a ridurre le distanze

Chi ha avuto la fortuna, o l’avventura, di visitare a Torino la Fiera del libro, si sarà favorevolmente sorpreso alla vista del fiume di visitatori richiamati dall’evento. Parlo di sorpresa perché è notorio quanto bassa sia in Italia la quota di lettori abituali. Basta sfogliare una qualsiasi indagine in materia e si scopre non solo che da noi il numero dei lettori è penosamente tra i più bassi dei Paesi sviluppati, ma addirittura che la capacità elementare di leggere e scrivere è diventata assai dubbia, soprattutto tra i giovani.

Risulta infatti che i lettori della fascia d’età compresa tra i 15 e i 75 anni, che nel 2019 erano il 65%, sono passati nel 2022 al 56% e, quel che è più preoccupante, il calo dei lettori è maggiore negli adolescenti (15-17 anni), ossia negli studenti per i quali il leggere (e lo scrivere) dovrebbe essere mestiere acquisito. Leggere poco o nulla costituisce di per sé un grave impoverimento della personalità. Ma l’avere difficoltà a capire quel che si legge e a esprimere con la scrittura il proprio pensiero costituisce una grave lesione della stessa convivenza sociale e un pesante danno, oseremmo dire, alla vita democratica. La riprova della presenza di questi inimmaginabili deficit nella formazione educativa dei nostri giovani viene fornita in modo inequivocabile dall’università. Non sono pochi gli studenti che chiedono (incredibile dictu) l’autorizzazione a scrivere in stampatello. Non perché si preoccupino di mostrare una cattiva grafia, ma semplicemente perché hanno seri problemi a usare la normale grafia in corsivo. La poca dimestichezza con la lingua italiana li porta a commettere errori grammaticali e sintattici, a usare un linguaggio corto e sincopato, a rifugiarsi in espressioni gergali, col risultato deludente di un pensiero poco articolato, poco approfondito quando non oscuro. La frequentazione assidua da parte dei giovani della rete e dei social media aveva alimentato la speranza che suscitasse una nuova familiarità con il leggere e lo scrivere. Non è così. Non si è valutato a dovere che questi mezzi comunicativi costringono a usare un linguaggio semplificato, un vocabolario ridotto a pochissime parole, sempre le stesse, al ricorso a immagini o segni. Ancor più, inducono i frequentatori assidui dei social media a rifuggire dallo scambio di idee, che è invece il lievito della cultura. Spingono a rinserrarsi in «bolle», frequentate solo dalla stretta cerchia di chi nutre le stesse opinioni, con un effetto chiamato echochamber (camera dell’eco) che riduce il dialogo ai soli consenzienti. Se si aggiunge poi che i frequentatori dei social, più che a confrontare le loro opinioni, si limitano a esibire la loro vita privata, si ha un’idea dei danni che provoca il selfismo di massa alla crescita culturale del Paese. C’è insomma di che preoccuparsi di questo analfabetismo di ritorno, soprattutto se si pensa che quella del futuro sarà – anzi, è già – una «civiltà della conoscenza». Da sempre, a dire il vero, l’istruzione è stata il più democratico degli elevatori sociali, oltre che il sale della democrazia. Vorrà pur dire qualcosa se l’Italia del Cinquecento era, con la Francia, la nazione con il più alto tasso di alfabetizzazione e al contempo anche una delle economie più sviluppate del Continente. Vien perciò da chiedersi: quale futuro economico, quale democrazia può sperare di avere un Paese che accusa un deperimento continuo del suo livello d’istruzione? Tanto più che in parallelo si sta formando una élite di lettori cosiddetti «forti» (più di 17 libri letti all’anno, forse proprio quella folla accorsa alla Fiera del libro). C’è stato un tempo, anni ’50-’60, in cui l’istruzione riduceva le distanze sociali. Ora non più. Viene meno con ciò una delle basi della democrazia. Sinora partiti e opinione pubblica non solo non hanno saputo dare una risposta a questa sfida, ma non vi hanno prestato nemmeno l’attenzione che meriterebbe.

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