Se la società è malata lo è anche la sanità

Al netto delle polemiche politiche, che in Italia si alimentano utilizzando il cervello intestinale anziché quello naturalmente deputato al pensiero, la crisi che ha investito l’intero sistema sanitario del nostro Paese (Lombardia compresa) merita una riflessione ben più articolata di quanto Governo e Regioni stiano provando a fare. Non è riducendolo a una chiacchiera da bar o ripetendolo all’infinito che un problema tanto complesso e articolato giunga a soluzione, così come non è sufficiente pensare che la bacchetta magica per risolverlo consista solo nello stanziare molti più fondi di quanto non si stia facendo oggi. Gli investimenti sono ovviamente necessari, anche per iniziare a compensare i tagli fatti da troppi anni in qua e per cercare di riallineare l’Italia alla spesa sanitaria dei Paesi europei più lungimiranti, ma oltre ai soldi, servono idee nuove e voglia di condividerle concretamente, cercando soluzioni utili per il paziente (e non per questa o quella categoria di operatori sanitari), e - soprattutto - serve quello che nessun governo ha mai avuto il coraggio di dimostrare, vale a dire tanto (ma tanto) coraggio.

La prima vera rivoluzione copernicana potrebbe essere quella di stabilire una volta per tutte che, dal minuto successivo all’ottenimento della laurea in Medicina e Chirurgia, ogni neodottore è automaticamente un dipendente del Servizio sanitario nazionale, medico di Medicina generale compreso, cosa che - per inciso, ma nemmeno tanto - potrebbe portare ad una semplificazione dell’organizzazione della medicina territoriale, di cui tutti lamentano la carenza. E per non toccare lo «status quo» ledendo diritti oggi già ben definiti, si potrebbe agevolmente introdurre la norma a partire da chi si immatricolerà a Medicina e Chirurgia nell’Anno accademico 2030-2031. Salva, ovviamente, la possibilità di entrare e uscire dal Ssn per entrare e uscire dal «privato» (accreditato o meno), ma basta con le «terre di mezzo» o «di nessuno». Impossibile? Forse, ma l’impossibile è spesso l’intentato.

Altra rivoluzione: rivedere una volta per tutte le scuole di specialità al termine del corso di Medicina. Così come organizzate oggi, sembrano servire a poco in relazione soprattutto alla loro durata, 6 anni. Ne potrebbero bastare la metà, per poi inserire il medico in un vero percorso professionale, seguendo tutte le tappe professionali canoniche, dal basso verso l’alto. Le ricadute non sarebbero di poco conto, non tralasciando quella economica, che è uno dei fattori determinanti sia della scarsa attrattività sia delle «modifiche» agli stili di lavoro verso cui la società si è drammaticamente spostata dopo il Covid. Un laureato in Economia comincia a lavorare a 24 anni e dopo 6 anni il suo stipendio ha già dei contorni più o meno interessanti. Lo stesso dicasi per un ingegnere. Un laureato in Medicina con la specialità inizia invece ad esercitare a 30 anni: chi o cosa colmerà questo gap? «Così - come dice qualcuno che di sanità ne capisce davvero tanto - finisci per scatenare lo squalo» sotto il profilo economico.

C’è poi un’altra scelta rivoluzionaria che ciclicamente si vorrebbe mettere in pratica, ma che alla fine non si fa mai, complice anche (o soprattutto) un’instabilità politica che non consente a nessuno (né a chi governa né a chi ambisce a prenderne il posto) di seguire strade così estremamente coraggiose per evidenti motivi elettorali. E qual è questa scelta che mai nessuno si decide a fare come andrebbe fatta una volta per tutte? Il riordino della rete ospedaliera. Ha senso, ad esempio (ma è solo uno dei tanti che si possono fare), avere due cardiochirurgie che fanno le stesse identiche cose a 3-4 chilometri l’una dall’altra e da quell’altra ancora? Ha senso continuare a tenere aperti veri e propri ospedali in zone montane quando potenziare seriamente l’elisoccorso e riconvertire (non chiudere!) secondo i bisogni reali del territorio le strutture sarebbe non solo economicamente più vantaggioso ma anche più utile per l’intera rete ospedaliera? Ha senso voler cocciutamente aprire «Case di comunità» solo per far vedere che sono state «aperte» ben sapendo che dentro c’è poco o niente, e che, spesso, ciò che è stato messo lì è stato tolto altrove? Non sarebbe più utile cominciare a far funzionare quello che c’è, andando poi ad implementare in base alle forze su cui si può contare? Un riordino vero, radicale, incisivo è tra l’altro una delle condizioni necessarie e sufficienti - ormai improcrastinabili - per ridare respiro alla rete ospedaliera e all’intero sistema sanitario.

Infine, quello che - se attuato - potrebbe tranquillamente definirsi un atto eroico della pubblica amministrazione: una forte contrattazione con la sanità privata. Oggi è insostituibile, va tutelata e incentivata, intendiamoci, e sottrarla al sistema sarebbe soltanto un clamoroso autogol, ma (anche se qualcosa, oggettivamente, è stato fatto) resta indubitabilmente una discreta zona d’ombra che illuminare a giorno per stabilire regole chiare e uguali per tutti sarebbe giusto e corretto, mettendo il pubblico nelle stesse condizioni del privato anche per quel che riguarda il «mercato» degli operatori sanitari.

Come si vede, dunque, il fronte su cui lavorare è molto ampio, e non basta affidare la soluzione dei problemi al ministro di turno. Schillaci, peraltro, con l’idea di reintrodurre le accettazioni negli ospedali per ricoverare chi ha bisogno utilizzando la prescrizione del medico curante e abolendo l’accesso al pronto soccorso, oggi obbligatorio, dimostra di avere idee chiare, così come sul concetto di incrementare l’orario di lavoro settimanale dei medici di Medicina generale dentro le Case di comunità, ma il fronte su cui lavorare è così ampio che è necessario creare un tavolo di lavoro attorno al quale si siedano tutti i soggetti interessati, compresi altri ministeri oltre a quello della Salute (Economia, Infrastrutture, Scuola, Università), i Comuni, le stesse Università, il Terzo Settore. Serve un grande sforzo collettivo, univoco e unidirezionale, se si vuole rimettere in asse il sistema, e sono necessari grandi investimenti, anche nella prevenzione, arma spuntata ormai da troppo tempo.

Ma sulla testa di tutta questa grande impalcatura campeggia un gigantesco punto di domanda: il cambio di rapporto tra la vita e il lavoro. Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia, parla di «una mutazione genetica del valore assegnato al lavoro», che oggi vede il lavoratore inseguire l’autorealizzazione dell’Io: «Il rischio – ammonisce – è che ognuno vada per la propria strada, una corsa in cui vincono i più forti». Più che un rischio, sembra una certezza. O, meglio, una realtà. E, per tornare al punto di partenza, anche così si spiega la carenza di medici e infermieri, di medici che lasciano gli ospedali per l’attività privata e dei giovani che schivano la Facoltà di Medicina per cercare qualcosa di più remunerativo e in minor tempo. Quante volte i nostri padri, o i nostri nonni, ci hanno raccontato di quel medico condotto che incurante del tempo, dell’orario, del portafoglio del malato, e della difficoltà della strada da percorrere, in aperta campagna o in alta montagna, raggiungeva chi aveva bisogno? Oggi questa dimensione esiste ancora? Il sospetto è che la risposta sia purtroppo negativa (anche se i maligni sottolineano che un tempo i «condotti» erano pagati a prestazione, non a numero di mutuati, e che reintrodurre quel meccanismo non sarebbe poi così male per la medicina territoriale). Il rovescio della stessa medaglia è la mancanza di rispetto che molti pazienti di oggi riservano a medici e infermieri, arrivando finanche ad aggredirli.

Si è perduto il valore e il carattere della gratuità e della disponibilità, si è perso il valore di una scelta etica, che oggi non viene più fatta. E se l’egoismo professionale imperante non è un bel segnale per nessuno, è ancora peggio in ambiti in cui la dimensione dell’altro deve essere necessariamente alla base delle nostre scelte. Pochi medici, pochi infermieri, pochi insegnanti, pochi volontari: siamo di fronte ad una drammatica crisi vocazionale che vede al centro del vortice la sanità, la scuola, la dimensione educativa nel suo complesso. Ambiti che se non vissuti con piglio vocazionale vengono svuotati del loro senso più intimo: se non ci si sente chiamati alla cura dell’uomo, l’intero castello cade, con tutte le conseguenze del caso. Se è vero che mestiere deriva da ministero (dal latino ministerium, servizio), oggi allora corriamo il rischio di essere solo dei mestieranti, dei lanzichenecchi al servizio del soldo e nulla più. È un pericolo serio, enorme, che rischia di ammorbare la nostra società, sempre più priva di valori che pensano all’umano. Anche per questo se la società è malata, lo è pure la sanità.

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