Spoil system, competenza al servizio del potere

Politica. Lo spoil system (o «sistema delle spoglie») è quel meccanismo – vigente negli Stati Uniti, ed anche in altre democrazie – in ragione del quale la parte politica che ha vinto le elezioni ha il diritto di cambiare, anche interamente, i vertici degli apparati amministrativi. Tale sistema ha, alla base, un preciso presupposto: chi prevale nella competizione elettorale può «prendersi tutto».

Ciò implica che viga un sistema costituzionale (il presidenzialismo), nel quale il Capo dello Stato è eletto direttamente dal popolo. Negli Usa l’ampiezza dei poteri del presidente è mitigata da un forte e articolato meccanismo di controllo sull’esecutivo. Oltre che dalla Corte costituzionale, tale potere viene esercitato dalle Camere attraverso le audizioni dei candidati al «posti di comando» delle amministrazioni pubbliche. In Italia lo spoil system ha una tradizione molto meno antica ed è uno dei prodotti meno riusciti delle riforme amministrative iniziate negli anni Novanta. Il sistema delle spoglie è stato introdotto dalla legge 145 del 2002 (nota come «legge Frattini») che permette al governo ampi margini di manovra nella nomina dei vertici amministrativi. Le norme di quella legge sono state ripetutamente criticate da più parti. A dispetto di ciò la questione è tornata alla ribalta con la nomina di Guido Castelli a Commissario per le aree terremotate al posto di Giovanni Legnini.

Che da sempre vi sia una tendenza della politica ad esercitare un controllo stretto sui vertici de gli apparati amministrativi è noto. Al riguarda basta un esempio: nel 1876, alla caduta della Destra storica, nell’arco di soli tre mesi. il governo Depretis sostituì - con una sola eccezione - i Segretari generali in tutti i ministeri. Fino all’avvento del fascismo il meccanismo ebbe un analogo andamento anche dopo la soppressione, nel 1888, della figura del Segretario generale. Durante il ventennio fascista l’ingerenza della politica nei vertici burocratici aumentò progressivamente fino a diventare assoluta, ramificandosi anche negli gangli medio-bassi degli apparati pubblici con l’ingresso massiccio di esponenti del Pnf.

Il nodo irrisolto del rapporto politica/amministrazione era talmente sentito che fu oggetto di specifica attenzione all’Assemblea Costituente. Nel dibattito di quel periodo venne emergendo l’opportunità di trovare forme di integrazione tra politica ed amministrazione, con il duplice intento di fornire ai dirigenti di vertice effettivi poteri con determinati margini di autonomia e di non infrangere il ruolo di indirizzo e controllo dei ministri sull’attività degli apparati. Nelle vicende del periodo repubblicano tale ragionevole proposito si è scontrato, da un lato, con la resistenza delle alte burocrazie, dall’altro, con la propensione dei ministri e dei sottosegretari di intervenire con pressioni spesso indebite o non in grado di risolvere problemi di sempre maggiore complessità. Nei fatti, i centri effettivi delle decisioni sono divenuti gli uffici di gabinetto dei ministri, sia perché spetta al vertice politico degli apparati la nomina dei capi di gabinetto e dei suoi collaboratori. Le strutture gabinettistiche sono ormai le vere «stanze del potere» nelle quali si coagulano e si sintetizzano le scelte. Ovviamente la bontà le soluzioni sono tanto più adeguate quanto più prevalgono indirizzi politici idonei e capacità delle burocrazie di tradurli in provvedimenti efficaci, utili e conformi agli interessi della collettività. Proprio questa difficile alchimia sembra essere l’unica strada che permetta un buon funzionamento degli apparati pubblici e una legittimazione effettiva del ceto politico, che deriva dal consenso elettorale. Mettere al primo posto la competenza e l’esperienza e profilo etico adeguato dovrebbero essere gli elementi di riferimento. In parole povere: la persona giusta al posto giusto.

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