Stato-mafia, se la trattativa
è senza prove

Dal bianco al nero, dal giorno alla notte. Un verdetto ribaltato, diametralmente contrapposto al primo. E alla fine sarà la Corte di Cassazione a calare il sipario, sulla base però di eventuali vizi formali e procedurali, nel processo iniziato nel 2013 sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia, tra le due sentenze uscite il 20 aprile 2018 dalla Corte d’Assise di Palermo e il 23 settembre 2021 dalla Corte d’Assise d’Appello, che giovedì ha tramutato in assoluzioni le condanne del primo grado. È il processo penale, si dirà, composto da diversi gradi di giudizio. Inoltre bisognerà attendere le motivazioni. Ma si rimane egualmente interdetti dal «pendolo» della giustizia, che ovviamente lascia spazio a interpretazioni e polemiche. Due sentenze divisive che hanno lasciato strascichi addirittura all’interno della famiglia Borsellino, i cui familiari danno letture opposte della vicenda.

Analoghe perplessità avevano suscitato le sentenze contrapposte intorno al caso Contrada, il numero tre dei Servizi segreti accusato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, poi assolto in appello, poi di nuovo condannato fino alla sentenza assolutoria della Corte europea di giustizia. Il reato attribuito a Contrada è di per sé già difficilissimo da dimostrare (che significa «concorso esterno»?), figuriamoci per un investigatore abituato a contatti con la malavita, con la mafia e con il terrorismo per sviluppare le sue inchieste. Lo stesso funzionario di polizia mi aveva spiegato in un’intervista che quando indagava su Cosa Nostra era abituato a contattare soprattutto quelli che stavano «con un piede dentro e un piede fuori» per poter arrivare ai pesci grossi. Lo stesso vale per Mori e i suoi uomini, frequentatori per forza di cose di quella «zona grigia» tra guardie e ladri dove avvengono incontri e soffiate, utilissima per arrivare alla cattura dei boss, nella fattispecie addirittura a quella di Riina.

Ma cosa c’era di vero della cosiddetta «trattativa» tra mafia e Stato? Nella sostanza si contestava agli ex carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno di essersi fatti tramite della volontà dei «mammasantissima» della mafia, intenzionati a chiedere favori allo Stato, in cambio della cessazione della strategia stragista messa in campo dai Corleonesi nel 1992-1993. A Marcello Dell’Utri, (che per altri fatti ha scontato una condanna definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa), veniva imputato di essersi fatto latore del messaggio dei boss di Cosa Nostra all’allora capo del Governo Silvio Berlusconi (nel processo parte lesa). Per la Corte d’Appello l’accusa per i carabinieri è caduta perché il fatto non costituisce reato. Per Dell’Utri addirittura per non aver commesso il fatto. In buona sostanza i giudici non hanno escluso che ci sia stata un’«interlocuzione» con esponenti di Cosa Nostra, nell’ambito di un’attività investigativa, con lo scopo di mettere fine alle stragi, ma hanno stabilito che quell’interlocuzione era rimasta nei limiti del lecito. Questa tesi è stata supportata anche da due giuristi di vaglia in un libro sull’argomento. Si era infatti discusso della difficoltà di provare in giudizio una fattispecie di reato complessa come la minaccia a un corpo politico (la presidenza del Consiglio) e di farvi rientrare i fatti, non tutti chiari, come accertamento. A complicare ulteriormente il quadro sono intervenute altre sentenze non tutte definitive a vario titolo connesse, ma non univoche nelle conclusioni, come quella che ha assolto in via definitiva in abbreviato Calogero Mannino, accusato di essere il primo anello della trattativa o la prescrizione di Massimo Ciancimino, teste rivelatosi «periclitante», processato per l’inautenticità del famigerato «papello» che avrebbe dovuto contenere le richieste di Cosa Nostra allo Stato. È anche amaro constatare anche che le sentenze in fondo risentono del periodo storico e politico in cui sono state emesse.

A volte si cerca un capro espiatorio per placare la rabbia collettiva di certi soprusi e di certi fatti e quando il periodo cambia, quando gli animi si raffreddano, cambiano anche le sentenze di condanna o di assoluzione, non necessariamente in quest’ordine. Ma tutto questo forse riflette la perfettibilità del diritto, i limiti dell’essere umano e del fatto che forse non si potrà mai arrivare a certe verità, che bisognerà fermarsi a un «non liquet» di fronte a un prisma di luce impossibile da afferrare nella sua complessità (e con la mafia questo succede spesso, Sciascia lo diceva e lo scriveva di continuo). Non per questo dobbiamo scoraggiarci, ma continuare ad avere fiducia nella giustizia.

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