Taglio parlamentari
Elezioni più vicine

Il referendum sul taglio dei parlamentari (la riforma costituzionale voluta dal M5S ma votata anche dalla Lega all’epoca del governo giallo-verde) è sulla dirittura di lancio: 71 senatori hanno presentato la proposta di quesito: ne bastavano 64. Il brivido si è avuto ieri quando quattro parlamentari di Forza Italia della corrente di Mara Carfagna hanno ritirato la loro firma. Sono stati subito sostituiti dai leghisti. Per una ragione molto chiara: il referendum dà il tempo a chi vuole, di provocare nuove elezioni che, in attesa del verdetto popolare sulla riforma, si terrebbero con la vecchia norma costituzionale.

Ossia si eleggerebbero ancora una volta 630 deputati e 315 senatori, senza la pesante decurtazione di un terzo voluta da Di Maio. Chi teme di non trovare posto nel nuovo Parlamento sarebbe chiamato a correre il rischio. Viceversa, se il referendum non fosse stato proposto, la legislatura sarebbe stata blindata per il motivo opposto: teniamoci queste Camere fino alla scadenza naturale, o al più a lungo possibile, perché alla prossima, con la decurtazione delle poltrone, ci sarà posto per pochi.

Insomma: il referendum, se si fa è una mina sotto la poltrona di Giuseppe Conte; se non si fa è un’assicurazione sulla vita dell’attuale presidente del Consiglio. Ecco perché gli amici di Mara Carfagna si sono ritirati: perché da tempo sostengono ufficiosamente il governo giallo-rosso. Ed ecco perché Salini ha spedito i suoi a depositare la firma: perché è un modo per accelerare le elezioni e far cadere l’attuale esecutivo. Salvini lo dice chiaramente, senza ambasce per la contraddizione in cui cade la Lega che chiede una prova d’appello al popolo su una legge che ha approvato. Ma così va la tattica politica.

I grillini sono certi che il verdetto popolare sarebbe a loro favorevole (chi si oppone ad un taglio delle poltrone?) ma sanno che stanno per cadere in una trappola: se si andasse a votare ora mediante una crisi di governo, essi sarebbero strappati dai posti di comando ministeriali ma soprattutto il M5S correrebbe verso il disastro elettorale. Probabilmente Di Maio e i suoi si attesterebbero intorno al 15-16% che vuol dire il ritorno all’opposizione e il quasi certo sgretolamento della loro formazione politica. Segni di questa crisi ci sono quotidianamente: parlamentari che abbandonano i gruppi pentastellati e si accasano nel gruppo Misto in attesa di vedere cosa succede (chi vuole andare con l’ex ministro Fioramonti, chi punta alla Lega, chi spera di essere arruolato nei ranghi del Pd) e parlamentari che firmano documenti di aspra critica a Di Maio e a Casaleggio. Non è un caso che si rincorrano le voci di un passo indietro del capo politico che rinuncerebbe al ruolo di guida per rimanere ministro degli Esteri - l’interessato però smentisce - anche per non subire l’ennesimo processo per la sconfitta prossima ventura in Emilia Romagna.

Ma il referendum sul taglio dei parlamentari non è l’unico. Il 15 la Corte Costituzionale dovrà emettere il verdetto anche sulla consultazione proposta dalla Lega per rendere la legge elettorale vigente (il «Rosatellum») seccamente maggioritaria e quindi molto favorevole alle coalizioni più forti, cioè al centrodestra a guida leghista.

Per parare il colpo, Pd e M5S si sono accordati su una proposta di riforma totalmente proporzionale con sbarramento al 5% che annacquerebbe la vittoria di Salvini. I giudici dovranno decidere sapendo bene che dal loro verdetto deriveranno le fortune dei singoli partiti e, anche in questo caso, la sopravvivenza della legislatura.

© RIPRODUZIONE RISERVATA