Tenuta del governo,
passa dalle riaperture

Nel governo è in atto una corsa contro il tempo: le proteste di piazza che hanno infiammato il dopo-Pasqua dimostrano che la situazione economica e sociale del Paese è ormai al limite e che i «ristori» o «sostegni» non bastano più a trattenere gli italiani meno garantiti. E dunque a palazzo Chigi si continua a premere sul generale Figliuolo, sul prefetto Curcio, sulle Regioni e soprattutto sulle autorità europee e sulle grandi aziende produttrici dei vaccini perché aumenti la distribuzione delle fiale in Italia. Purtroppo a complicare le cose ci sono le inesauribili grane che riguardano AstraZeneca, il vaccino su cui più ha puntato l’Italia (ma non solo) con decine di milioni di dosi, circa la metà del totale prenotato. Il danno reputazione inflitto al vaccino anglo-svedese e le limitazioni che vengono imposte al suo uso fanno aumentare le rinunce e le disdette dei prenotati che preferiscono aspettare la disponibilità di Pfizer, Moderna e adesso anche di Johnson&Johnson.

Ecco dunque la corsa: le riaperture delle attività, unico vero sostegno utile, sono possibili solo nel momento in cui la curva dei contagi cala ma la curva cala troppo lentamente perché la campagna di vaccinazione è ancora lontana dall’obiettivo delle 500 mila inoculazioni quotidiane promesso dal commissario straordinario. Nel frattempo Draghi ha dato mandato al Tesoro e al fido ministro Daniele Franco di lavorare a un ulteriore scostamento di bilancio per immettere nell’esangue mercato interno un’altra montagna di miliardi (che però, divisa per ciascuna famiglia o partita Iva, si trasforma in spiccioli che a poco servono). Stretto in questa morsa, il governo Draghi constata con apprensione una certa diminuzione di consensi: il rischio è che Super Mario veda svanire il tocco magico e diluirsi l’attesa esageratamente messianica nella sua azione. Che pure è fondamentale: basti osservare la relativa calma dei mercati nei nostri confronti per capire quanto il prestigio internazionale del presidente del Consiglio stenda sull’Italia - insieme naturalmente alla Bce di Christine Lagarde e alla sua azione «draghiana» - un velo protettivo.

La domanda che Draghi continua a porre ai suoi collaboratori però riguarda la «tenuta» politica della maggioranza in questa stretta in cui si trova l’Italia. E il pensiero corre immediatamente a Matteo Salvini. Il leader della Lega si è intestato da tempo la richiesta delle «riaperture» anche se, mentre perentoriamente chiede che sia «restituita la vita agli italiani» è lui stesso costretto ad aggiungere che bisogna «basarsi sui dati scientifici» e, purtroppo per tutti noi, i dati del Cts e delle varie autorità medico-sanitarie impongono cautela. Il problema di Salvini si chiama Meloni: la leader di Fratelli d’Italia, rimasta da sola all’opposizione, gode dell’enorme vantaggio politico di chi critica senza dover misurare le proprie capacità d’azione. Così la Meloni può sottrarre alla Lega altre fette di consenso elettorale: ormai i due partiti viaggiano a distanza ravvicinata e il vantaggio di Salvini non è più quello di un anno fa. L’ex ministro dell’Interno, stando al governo, non può rappresentare appieno le proteste, e questo è uno svantaggio assai maggiore della dote di potere che il Carroccio ora gestisce.

Peraltro una dote che minaccia di sottrarre a Salvini la presidenza di un organismo parlamentare delicatissimo come il Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti che, per legge, spetta all’opposizione e dunque a Fratelli d’Italia. La Lega non molla la poltrona, la Meloni protesta, il Pd in funzione anti-Salvini le promette aiuto mentre i due presidenti delle Camere si dichiarano sorprendentemente incompetenti a intervenire. Una battaglia di potere che prima o poi finirà per planare sulla scrivania del Capo dello Stato.

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