Terzo mandato, fronte comune

ITALIA. Il 6 aprile dello scorso anno il Parlamento ha approvato una riforma che prevede la possibilità di un terzo mandato, ma solo per i sindaci di Comuni sotto i 5mila abitanti.

A inizio 2023 Antonio Decaro, presidente dell’Assemblea nazionale dei Comuni italiani (Anci) e sindaco di una grande città come Bari, si è spinto oltre, dichiarandosi disponibile a svolgere un terzo mandato per portare a termine importanti investimenti, tra cui quelli legati all’attuazione del Pnrr. Gli hanno fatto eco, con analoghe argomentazioni, Dario Nardella sindaco di Firenze e Matteo Ricci, sindaco di Pesaro. Posizioni simili sono state assunte da alcuni presidenti di Regione, anch’essi in scadenza del secondo mandato, appartenenti a vari partiti come Toti, Zaia, Fontana, De Luca e Bonaccini. Di queste posizioni si è fatto portavoce il leghista Massimiliano Fedriga - presidente della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e del «sindacato» dei governatori - il quale ha scritto al ministro degli Affari regionali Calderoli e alla premier Meloni affermando che «è necessario estendere il limite di mandato a tutti gli organi di vertice degli enti locali a tre mandati».

Fino ad ora posizioni in dissenso, rispetto alle richieste avanzate da sindaci e presidenti di Regione, sono state esplicitamente assunte da esponenti di Fratelli d’Italia che aspirano a vedere insediati in quelle cariche propri scudieri, da Renzi e Calenda per una volta concordi nel richiamare al rispetto dei principi democratici dell’alternanza, nonché dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein forse anche perché teme la possibile riconferma del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, col quale a dir poco non corre buon sangue. Segnali di una qualche apertura sono invece giunti da esponenti di Forza Italia, mentre Matteo Salvini si è dichiarato del tutto favorevole. Nella Lega si sussurra che la ragione potrebbe essere che il segretario preferirebbe vedere Luca Zaia ancora impegnato nella presidenza della Regione Veneto, piuttosto che in una possibile competizione volta a contendergli lo scettro nazionale. Sta di fatto che nei mesi estivi la questione sembrava essere stata archiviata. Pochi giorni fa, tuttavia, Decaro, quale presidente dell’Anci, si è rifatto vivo con una lettera inviata a Meloni nella quale tra l’altro è detto: «Noi riteniamo che solo i cittadini dovrebbero decidere se confermare un bravo sindaco o mandarlo a casa, come capita in tutte le democrazie europee».

Al di là delle discussioni e delle polemiche che si susseguiranno nei prossimi mesi tra fautori e contrari al terzo mandato, la materia in discussione appare assolutamente di grande rilievo e dovrebbe richiedere un adeguato approfondimento anche sul piano teorico, perché attiene alla concezione stessa della democrazia. La «democrazia liberale» ha come proprio fondamento principale la sintesi di popolo (demos) e potere (kratos). Questa sintesi non si realizza quando prevalgono il primo o il secondo aspetto. Nel primo caso il rischio di dare sostanza a populismi (di destra o di sinistra) è molto alto. Nel secondo caso si può privare la democrazia del suo tessuto connettivo con il rischio di scivolare nella «tecnocrazia». È connaturata alla «democrazia liberale» l’esigenza di realizzare meccanismi di autodifesa che mirino a limitare i «poteri». Le posizioni «populiste», invece, rischiano di portare all’assunto che la volontà del popolo non debba subire alcuna limitazione e non debba essere impedita né dalle istituzioni indipendenti, né dai diritti individuali.

Se il legislatore in passato ha posto un limite ai mandati di sindaci e governatori lo ha fatto in ossequio ai principi di democrazia liberale, in base ai quali anche il potere dell’amministratore più saggio e illuminato deve essere a termine. Il fisiologico passaggio di consegne tra uomini, idee, gruppi di potere e parti di società civile è parte organica di una concezione dinamica della democrazia liberale.

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