Tra stato e mercato
non serve la guerra

Quando girano tanti miliardi (oltre 3.000 complessivi per 27 Paesi, tutti made in Europa) e quando l’ emergenza giustifica la fine di tutti i limiti e persino dei controlli, il potere pubblico finisce per sentirsi onnipotente, a fronte di centinaia di categorie sociali che tendono la mano. È una festa per gli statalisti, ma senza accorgercene rischiamo di trovarci tutti a dipendere dalla benevolenza pubblica. Ne può andare di mezzo l’ equilibrio tra Stato e mercato. Va bene soccorrere, e dare risorse e talvolta sussidi, altrimenti interi settori si fermano e non partiranno più, ma occorre anche pensare da subito a salvaguardare l’ elasticità del sistema, per non ruzzolare verso una decrescita sempre meno felice. I debiti, perché di debiti in gran parte si tratta, limitano la libertà dei debitori, lo capisce chiunque, e già abbiamo sul groppone 43 mila euro a testa, neonati compresi.

Per uno Stato, questa si chiama limitazione della sovranità e il paradosso è che da un lato l’ Italia di oggi e di domani perde autonomia (la perdono in questo caso anche tutti gli altri Stati, ma molto di meno e in qualche caso l’ aumentano) e dall’ altro conquista un potere fortissimo sulla società, almeno là dove si crea una dipendenza.

È giusto chiedersi se ci sono gli anticorpi per difendersi da questa prospettiva. Analizzando la situazione, Angelo Panebianco ha tratto conclusioni molto pessimistiche, che derivano dalla sua opinione che i populisti, oggi in larga maggioranza in Parlamento, «quando governano portano i Paesi alla rovina», perché vogliono redistribuire risorse tra i territori e le classi sociali, ma questa azione scatena «ferocissimi conflitti in grado di mandare in pezzi un Paese». Solo una forte crescita economica può porre rimedio, ma quello attuale è un sistema drogato da risorse abbondanti, come se la crescita ci fosse davvero, mentre è solo il frutto di una repentina iniezione di debito, qualcosa come 20-22 punti in pochi mesi.

Solo una guida stabile ed equilibrata potrebbe risolvere queste contraddizioni, ma ogni giorno constatiamo che il Governo Conte é stabile solo perché considerato senza alternative, e per di più, sempre secondo Panebianco, la «coalizione che lo sostiene è in preminenza antibusiness» e incline a ricreare lo Stato padrone. Sono piccole, sia in maggioranza che in opposizione, le forze che possono controbilanciare la tendenza. La bilancia pende tutta dalla parte statale se prevale l’ ostilità all’ impresa, l’ eclisse del libero mercato (Alitalia, Ilva, Atlantia), la confusione sugli orizzonti geopolitici (Cina o Nato? Russia o Europa?).

Sembra per fortuna ben rendersene conto, in un’ intervista a «Il Foglio», il viceministro Antonio Misiani, che riapre spiragli già chiusi da improvvide dichiarazioni di personaggi autorevoli come Patuanelli ed Orlando, tranquillamente propensi alla nazionalizzazione delle imprese, anche piccole, se non restituiranno i debiti. Misiani riporta i confini dello Stato là dove devono stare, indicando se mai le carenze della responsabilità pubblica in settori chiave: la sanità, la scuola, la ricerca. Per finanziare massicci programmi in questi campi (alla sanità penserà il Mes, purché ci sia un progetto vero, oggi mancante), esclude nuove tasse e patrimoniali, e anzi mette il dito sul vero problema: l’ attacco al ceto medio, simbolizzato dalla vessazione di quell’ aliquota ingiusta (28 mila/55 mila euro di reddito) che paga il 38%.

Quanto sia rappresentativa, questa voce fuori dal coro neostatalista, lo diranno i fatti. Per ora è confortante la smentita alla tesi di Panebianco su atteggiamenti anti-business almeno di alcuni settori più consapevoli. Misiani è chiaro: «Non serve la guerra tra stato e mercato» ma dicendolo per negarlo, segnala comunque che il problema c’ è. In questa fase di straordinaria emergenza, occorre aiutare il mercato, non soffocarlo o sostituirlo.

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