Traversata nel deserto del Pd, manca
qualcosa

«Una traversata nel deserto». Così il segretario dimissionario Enrico Letta ha definito senza infingimenti il percorso che si apre davanti al partito con la convocazione del congresso per il prossimo 12 marzo. Non poteva dirlo meglio. Il «sol dell’avvenir» è scomparso dall’orizzonte della sinistra.

Davanti al partito che fu dei lavoratori si spalanca una distesa di sabbia che annuncia per i viandanti una traversata assai gravosa, resa ancor più opprimente dal ricordo delle troppe volte che in passato l’agognata oasi salvifica si è rivelata un miraggio. Un deserto da affrontare senza una meta chiara, senza una guida affidabile, senza compagni di strada. Con, in più, alle spalle il vuoto e davanti una sfida da affrontare in condizioni poco incoraggianti. A cominciare dal clima che si respira all’interno del partito. Non c’è accordo nemmeno sulla data di convocazione del congresso. Per taluni sei mesi sono un’infinità di tempo, per altri non sono abbastanza. Con un mondo che richiede decisioni in tempo reale non è male. Vige poi nel partito un senso di smarrimento aggravatosi dopo il cattivo risultato elettorale. Il Pd è reduce da una prova che vive come rovinosa non tanto per i numeri, quanto perché ha azzerato la sua politica.

Due sono state le scommesse che nei suoi tre lustri di vita il partito di Letta ha lanciato, perdendole entrambe, senza peraltro averle giocate con la necessaria determinazione. Con Veltroni ha puntato sulla «vocazione maggioritaria»: in parole povere, ad assorbire ogni altra presenza del campo progressista. Non gli è bastato alla prima prova elettorale l’aver ottenuto quello che si rivelerà il miglior risultato della sua storia. Lo ha ritenuto scoraggiante e s’è rifiutato di insistere. Con Bersani ha ripiegato sul «campo largo», ossia a prendere atto che una corsa in solitario difficilmente sarebbe riuscita vincente. Meglio accettare la molteplicità delle presenze nel campo progressista e limitarsi a federarle.

Di nuovo, un nulla di fatto. Bruciate le due carte che aveva in mano, bruciati dieci segretari in quindici anni, il partito s’è ritrovato alla casella di partenza. La vera resa dei conti s’è avuta alle ultime elezioni. Tornato a giocare la carta del campo largo, s’è accorto che non c’erano più le condizioni. Aveva infatti due possibili alleati da associare, ma tra loro incompatibili. Temendo che con l’uno (il Terzo Polo) si sarebbe scoperto a sinistra e con l’altro (M5S) si sarebbe procurato un cedimento a destra, nel dubbio non ha scelto.

Il risultato è stato di perdere entrambi i potenziali partner, di lasciare la strada libera alla destra che ha conquistato la maggioranza parlamentare senza addirittura godere della maggioranza elettorale; infine, di trasformarsi da cacciatore a preda nelle mani dei partiti di Calenda e di Conte che dovevano irrobustirlo e che ora lo stanno spolpando.

Nel buio in cui si ritrova, un barlume di luce glielo ha offerto indirettamente la Meloni. Qual è il segreto della vittoria travolgente di FdI? La sua giovane leader ha dimostrato, ancora una volta se ce n’era bisogno, che nell’era della politica mediatizzata per vincere è innanzitutto imprescindibile il ruolo di un leader indiscusso, ancor meglio se dotato di carisma. In secondo luogo, che la qualità organizzativa del partito fa la differenza: un partito che sia insediato sul territorio, strutturato con attivisti e militanti, in grado di offrire all’elettorato un’idea capace di rimotivarlo. Sono requisiti che attualmente il Pd non possiede. Sarà bene che nella traversata del deserto se li procuri: possibilmente tutti e tre.

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