L'Editoriale
Domenica 26 Ottobre 2025
Trump in Asia, la politica dei dazi non funziona
MONDO. Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Con Donald Trump abbiamo occasione quasi quotidiana di riscoprire una delle frasi più celebri della filmografia di Nanni Moretti.
Il presidente Usa è partito per il tour asiatico che in cinque giorni lo porterà in Malesia, Giappone e Corea del Sud. Un viaggio importante, ricco di appuntamenti di rilievo: con il presidente brasiliano Lula, molto critico con la Casa Bianca e colpito da dazi al 50%; con la neo premier giapponese Sanae Takaichi; con il premier malese Anwar Ibrahim, che ha fatto da mediatore nella guerra tra Cambogia e Thailandia e spera di strappare un buon accordo commerciale con gli Usa. E si è pure mormorato di un possibile colloquio con il nordcoreano Kim Jong-un. Il momento chiave del viaggio, però, sarà l’incontro con il leader cinese Xi Jinping a margine dell’Apec (Cooperazione economica Asia Pacifico) che si svolgerà appunto in Corea. Incontro che, morettianamente appunto, si doveva fare, poi non più, quindi forse, e adesso invece, trumpianamente, si farà e «sarà un buon incontro».
Il «summit» con la Cina
La preparazione di questa specie di summit (Trump e Xi non si vedono di persona dal 2019) è stata non meno ricca di colpi di scena. La svolta positiva è arrivata quasi in extremis dalle trattative a Kuala Lumpur (Malesia) tra il segretario Usa al Tesoro, Scott Bessent, con il vicepremier cinese He Linfeng, che nelle scorse settimane sono stati turbolenti il giusto. Raccontano i giornali Usa che in una delle sedute Bessent abbia annunciato l’intenzione di imporre dazi alle navi di produzione cinese in transito nei porti Usa, e che He Linfeng abbia preso il telefono e, seduta stante, abbia ordinato un’ispezione fiscale ai danni di Nvidia, il colosso americano dei microchip.
E questa è proprio la chiave non solo della trattativa tra i colossi Usa e Cina, le cui ripercussioni saranno globali, ma dell’intera situazione internazionale. Nell’andamento sinusoidale del trumpismo, in quel procedere per colpi di scena, corre comunque un filo rosso: il tentativo di mettere un freno allo sprofondo del debito pubblico Usa e di rimediare alla decadenza del tessuto industriale del Paese. Soprattutto in un momento in cui il dominio del dollaro come valuta di riferimento del commercio mondiale viene messo in discussione (ma non ancora in crisi) dalle politiche monetarie dei Brics e dalla crescita dell’oro nelle riserve di un numero crescente di Stati.
L’aggressiva politica dei dazi, con l’annessa richiesta ai Paesi colpiti di insediare fabbriche negli Stati Uniti, risponde a questo scopo. E sarebbe una politica perfetta se il mondo fosse ancora quello di cinquant’anni fa. Oggi funziona molto meno. Trump ha ottenuto risultati (con l’Europa, per esempio, ma non solo) ma ha anche ricevuto dei «no» piuttosto sonori. Primo fra tutti quello della Cina, che alle pretese americane ha risposto a muso duro, colpendo laddove alla Casa Bianca fa più male: le terre rare.
Intreccio tra big tech e big army
La Cina domina il mercato globale delle terre rare: controlla il 70% dell’estrazione e il 90% della raffinazione. Gli Usa sono il secondo produttore ma dipendono dalla Cina per la raffinazione e la produzione di magneti e altri prodotti finiti. E i metalli critici sono decisivi sia per le tecnologie d’avanguardia sia per l’industria militare. Ovvero per quell’intreccio tra big tech e big army su cui si regge questo secondo mandato trumpiano. La Cina non andrà allo scontro frontale, non le conviene. Ma non cederà un millimetro. E questa è la nuova realtà con cui Trump deve fare i conti.
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