Tutelare la vita
Il Covid insegna

Stiamo vivendo un paradosso in questo tempo di pandemia, mentre tutta la comunità civile sta lottando per tutelare la salute delle persone, in Parlamento si riprenderà a discutere per rendere lecito togliersi la vita. Non è la prima volta che questo contrasto si pone nella storia del Paese. Nel 1978 quando è stata approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, che ha introdotto l’aborto volontario, la maggioranza degli italiani non era certo a favore dell’uccisione dei bambini ancora nell’utero materno eppure si è deciso che il rispetto della vita non fosse così importante come consentire alle donne di interrompere una gravidanza indesiderata. Non bisognava essere profeti per prevedere che il problema dell’aborto sarebbe rimasto in tutta la sua drammaticità e gravità davanti alla coscienza civile e cristiana della nostra società. Indagini serie inducono a credere che nei Paesi sviluppati il fenomeno abortivo ha, in realtà, un andamento indipendente dal tipo di legislazione che questi Paesi si danno: le norme restrittive non limitano l’aborto e quelle permissive non eliminano quello clandestino.

La legge si rivela sempre più inadeguata per difendere i bambini «invisibili». Ma nei prossimi anni la legge potrebbe divenire superflua perché l’aborto farmacologico (con la pillola RU486) in Inghilterra e Svezia rappresenta rispettivamente il 60% e il 90% delle interruzioni volontarie effettuate. In Italia è al 30% il resto è per aborto chirurgico, ma dal 2020 il ministero della Salute lo ha reso possibile fino alla 9ª settimana dal concepimento e stabilito che si può effettuare in day hospital, in ambulatorio o in consultorio, mentre prima era possibile solo in ospedale e sotto stretto controllo medico. In altre nazioni è possibile anche a domicilio. L’abolizione del ricovero obbligatorio - peraltro previsto dalla legge 194 - lascia indubbiamente la donna ancora più sola, senza sostegno sanitario e psicologico, ma per alcuni è un ulteriore passo verso il rispetto e la libertà della donna.

Questi dati ci fanno capire il motivo della proposta di Macron di inserire l’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’accesso all’aborto deve essere universalmente sicuro e legale. Una visione dell’aborto come ingrediente della salute sessuale e riproduttiva della persona. Un diritto quindi a cui nessuno deve porre ostacoli, nemmeno facendo obiezione di coscienza. Siamo lontani anni luce dalle vecchie considerazioni sull’aborto come dramma personale e sociale. L’aborto è semplicemente un diritto, punto e basta. In questo clima si capisce la preoccupazione dei vescovi italiani espressa in questa 44ª Giornata nazionale per la vita. Perché «il vero diritto da rivendicare è quello che ogni vita, terminale o nascente sia adeguatamente custodita».

Il problema è che si stanno rivendicando come diritti scelte personali che non possono essere generalizzate per validi motivi. Nel caso dell’aborto se un essere umano va a interferire con i propri piani perché questo dovrebbe autorizzare l’interruzione della sua vita? Solo perché indesiderato? Se invece ci sono motivi familiari, sociali o economici vanno rimossi. Come già previsto nella prima parte delle legge 194 quando chiede di «rimuovere le cause che possono condurre ad una richiesta abortiva». È quindi dovere di tutti fare il possibile in termini di supporto psicologico, aiuto economico, possibilità di adozione o affido temporaneo, perché quel figlio sia accolto. Ma prima di tutto è dovere di chi è preposto a mettere in atto le leggi.

Lo stesso per il «diritto» di por fine o far por fine alla propria vita con l’eutanasia. Si può capire che una persona trovi le sue sofferenze «assolutamente intollerabili» come dice la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento, ma questo deve portare necessariamente a legittimare il «diritto di morire»? Non esistono altre risposte a questa invocazione di aiuto come la terapia del dolore e le cure palliative già previste dalla legge 38 del 2010? Oppure se si tratta di rispettare le volontà del malato, non abbiamo già a disposizione il piano terapeutico di cura concordato con i medici e le disposizioni anticipate di trattamento previste dalla legge 219 del 2017? Se l’eutanasia «attiva» diventa un diritto - come prevede il referendum dei radicali - diventa un compito che lo Stato deve assolvere tramite il Servizio sanitario nazionale.

È cosi impossibile immaginare una società senza bisogno di impedire a un bambino di venire al mondo e senza richiesta di essere aiutati a por fine alla propria vita? Perché questa attesa non sia utopica deve fare ovviamente i conti con la realtà. Oggi non si ritiene importante vivere o far vivere, sempre e comunque, ma importa di più lo standard di vita di cui uno può godere. Conta il livello o la qualità di vita misurata sul benessere, sulle capacità e possibilità di avere e di fare. Dobbiamo lavorare per cambiare questo tipo di cultura dell’avere, dell’efficienza e del denaro altrimenti non si disinnesca l’individualismo che rivendica diritti su diritti. Se il Covid ci sta dando una lezione è quella di aver a cuore la vita. Nessuno lo può fare da solo. Ciascuno ha bisogno che qualcun altro si prenda cura di lui come ci insegna la vita fin dal suo primo apparire e c’è sempre bisogno degli altri perché la mia vita venga custodita dal male, dalla malattia, dal bisogno, dalla solitudine e dalla disperazione. C’è bisogno del coraggio delle donne e del coraggio di una società capace di «farsi grembo» delle difficoltà di una madre e di tutte le fragilità.

Siamo sicuri che il prendersi cura gli uni degli altri, specialmente dei più indifesi o svantaggiati, non porti anche una convivenza civile più giusta e democratica? Sicuramente creerebbe maggior spirito di solidarietà e aiuto fraterno, innescando circoli virtuosi di condivisione sociale e di sviluppo anche economico. Inventare o potenziare reti di prossimità in grado di aiutare le donne ad accogliere la vita, come fanno i Centri di aiuto alla vita o creare luoghi di servizi assistenziali legati alle caratteristiche del territorio capaci di accogliere malati, anziani o persone fragili, come prevedono le Case di comunità e gli ospedali di comunità messi in programma dalla Regione Lombardia può essere una strada da imboccare. Ma non basta. Ciascuno è chiamato a dare il meglio, a spendere la propria vita come servizio al bene di tutti, grato per dono di averla ricevuta e custodita con amore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA