Ue, un rapporto indispensabile

Il commento. Siamo già afflitti dalla guerra in Ucraina e dagli choc economici, e non si avvertiva la necessità di aggiungerne altri con il dramma migratorio Italia-Francia, sulla pelle degli sventurati e ad un anno dal Trattato del Quirinale sottoscritto dal governo Draghi per rafforzare le relazioni fra Roma e Parigi.

Uno strappo che mette in gioco quel primo credito internazionale ottenuto da Giorgia Meloni e che rischia di destabilizzare il quadro dell’Ue, come ha scritto «Le Monde», parlando di «disastro europeo» e dell’impotenza ad applicare i diritti umani che sono alla base della costruzione comunitaria. Ci sono comunque i margini per ricomporre il contenzioso, inopportuno oltre che dannoso, e i pontieri sono all’opera per ricucire: dopo gli acuti dell’esagerazione, occorre ritrovare i toni giusti. Non siamo al punto di rottura del 2019 con il sostegno di Di Maio ai gilet gialli e il richiamo dell’ambasciatore francese. Sta funzionando la «moral suasion» di Mattarella: sull’immigrazione, ha detto in queste ore il presidente, servono solidarietà e scelte condivise. L’assunto sovranista è smentito ancora una volta: nessuno può farcela da solo, la soluzione non può che essere nel concerto europeo, dove l’accordo volontario sui ricollocamenti, al quale aderiscono 13 Paesi, non sta però girando come dovrebbe, proprio perché volontario e non obbligatorio.

La gestione dei flussi umanitari si mantiene tormentata: ciascun leader sente la pressione interna e dei partner europei, per poi doversela vedere con i populisti in casa. Per la destra italiana è una questione di principio e identitaria, l’appuntamento per farne ogni volta un caso da recriminare, su cui costruire un racconto a uso interno: siamo sempre lì, al punto di caduta rituale riproposto alla prima occasione propizia per mostrare la linea dura. Scontando una certa distanza dalla realtà percepita: sia per le proporzioni del fenomeno che per le preoccupazioni degli italiani, che oggi sono altrove. Nessuno, o quasi nessuno in Europa, ha la coscienza a posto. Francia compresa: si veda quel che succede a Ventimiglia, si contino i collocamenti giunti a buon fine. Ma gli errori altrui non ci assolvono. L’offensiva diplomatica frontale di Parigi è stata probabilmente eccessiva, come ha riconosciuto lo stesso macroniano Calenda, e irrituale: la richiesta di isolare il nostro Paese è stata respinta da un peso massimo come la Germania che, nella stagione del «grande freddo» fra Scholz e Macron, ha ribadito che intende rispettare l’intesa sui ricollocamenti.

Nella frattura sono forse intervenuti malintesi nella comunicazione reciproca, ma sembra che il punto di frizione, la reazione ritenuta esagerata di Macron, sia stata causata dal trionfalismo di Salvini («L’aria è cambiata») mentre la Ocean Viking approdava in acque francesi, innescando l’accusa di lassismo della Le Pen al presidente, privo di una maggioranza parlamentare e con una squadra di governo dove non tutti potrebbero pensarla alla stessa maniera sul nostro esecutivo. Macron, per l’Italia, è insieme l’alleato indispensabile e l’avversario perfetto. Fra gli alti e i bassi delle relazioni fra i due Paesi cugini, considerando pure i diversi pesi specifici e i rapporti di forza. Lo è, nel primo caso, sul piano geopolitico (Ucraina, Libia e Sahel) e per l’agenda europea: gas, riforma del Patto di stabilità, Pnrr. Da qualsiasi punto di vista è uno strappo con il partner sbagliato. Lo è, nel secondo aspetto, perché il leader francese incarna tutto ciò che l’universo nazional-populista intende contrastare: pare costruito, anche per biografia, a misura dell’opposto populista. La premier italiana fin qui ha adottato un doppio registro. Quello da capo partito per piantare le bandiere identitarie («ansia dimostrativa», ha scritto il politologo Giovanni Orsina su «La Stampa») con esiti negativi o modesti. Quello da premier, partendo in questo caso con il piede apparso giusto e nel segno del realismo: a Bruxelles e nei due incontri con lo stesso Macron. L’atlantismo riaffermato è parte della soluzione, e lo stesso ridimensionamento di Trump può risultare conveniente a Meloni, ma non copre tutta la partita. L’Italia economica resta sorvegliato speciale e sulla destra di governo la valutazione europea è composta da più variabili. È interesse anche di Bruxelles evitare che l’Italia scivoli lungo il fronte di Orban.

C’è bisogno di ricostruire un rapporto di fiducia fra dimensione interna ed europea, mentre la vicenda della nave umanitaria ha raccontato una storia opposta, mostrando la complessità e le trappole di un percorso di riavvicinamento: andrebbero calcolati in forma più meditata il rapporto costi-benefici dell’«ansia dimostrativa» esibita e il prezzo da pagare. L’accredito europeo di Meloni è, per certi aspetti, legato alla sua capacità di mostrarsi alternativa credibile a Salvini. Il guaio si pone nello scarto fra quel che si dice nelle sedi che contano e ciò che si fa da noi. La premier ha sì un problema di gestione e di controllo dell’alleato leghista, ma in questa competizione a destra, fatta di inseguimenti e di sorpassi sui temi più sensibili e delicati, che chiamano in causa i diritti della persona, s’è vista una condotta unica: quella più radicale.

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