Un candidato e tanti dubbi nella corsa alla Regione

«Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente». Ma probabilmente anche il «grande timoniere», il compagno Mao Tse Tung, si sarebbe raccapezzato poco nello psicodramma che sta vivendo il centrosinistra lombardo, Pd in testa. Partiamo dalle cose certe: c’è un candidato per la sfida ad Attilio Fontana nella corsa alla Regione.

E magari tra le (quasi) certezze ci si potrebbe aggiungere quella di una sconfitta, possibile e forse nemmeno tanto onorevole, ma in politica mai dire mai. Restando sempre nel campo del (sufficientemente) certo, il nome di Pierfrancesco Majorino nella corsa a Palazzo Lombardia non pare quello in grado di scaldare i cuori e chiamare alla mobilitazione un centrosinistra che - ricordiamo - manca l’appuntamento dal 1995. In sostanza, dall’elezione diretta del presidente (attenzione, a turno unico, va sempre ricordato...) nella stanza dei bottoni non c’è mai stato e le premesse del prossimo giro fanno presagire altri 5 anni di opposizione, così a naso.

Premessa doverosa: nessun giudizio su capacità, impegno e preparazione del quasi cinquantenne (traguardo che taglierà il prossimo anno) eurodeputato del Pd che vanta due mandati da assessore a Milano, con le Giunte Pisapia e Sala I, solo qualche perplessità sulle scelte di un Pd che con una sola mossa riesce a) a far venir meno le primarie e b) spostare l’asse della coalizione più verso sinistra che non in direzione di quel centro che sembra quasi lasciato ai destini del terzo polo. Con tanti saluti a quella parte del partito che, dopo lo strappo sulla candidatura Moratti e tramontata una coalizione unitaria, aveva comunque in animo di provare a imbastire un dialogo (anche post urne) con le truppe terzopoliste, a questo punto sempre più coalizzate - anche obtorto collo - intorno alla candidatura dell’ex assessore alla Sanità.

Il problema è che questa - legittima, per carità - scelta di campo del centrosinistra da un lato pare chiudere qualsiasi opportunità di dialogo con i pentastellati (a loro volta alle prese con la ricerca di un candidato e un consenso tutto da misurare), e dall’altro rischia di portare pure voti al terzo polo. Quelli di qualche centrista magari non proprio in sintonia (eufemisticamente...) con la Moratti, ma nemmeno con la scelta di Majorino che comunque ha una precisa connotazione e torna a rendere difficile il dialogo interno nel Pd.

Dove c’era chi voleva le primarie (Maran), chi puntava su un ticket col terzo polo su Carlo Cottarelli, nome poi saltato dopo la fuga in avanti del tandem Renzi&Calenda sulla Moratti, e chi lavorava a un centrista come il sindaco di Brescia (in scadenza) Emilio Del Bono che a un certo punto si è sfilato. Con qualche ragione, visto il rischio di restare col cerino in mano.

Alla fine la scelta di Majorino è anche un po’ una redde rationem, soprattutto in un Pd atteso da congressi che sanno di rifondazione: c’è chi è convinto che con un nome politicamente ben collocato si potrà da un lato rafforzare l’ala sinistra della coalizione e dall’altro convincere quei centristi dall’anima più attenta al sociale. In sostanza serrare le fila del centrosinistra e cercare di respingere quella che è stata definita come un’Opa ostile della Moratti.

In molti però temono che questa tattica rischi di disorientare proprio quei centristi pronti a virare in direzione di un terzo polo che potrebbe raccogliere un buon numero di consensi, sufficiente sì a far perdere il centrosinistra ma non a battere il centrodestra. Che se ne sta lì a osservare tutto quel che succede dal centro in là e che rischia la riconferma senza nemmeno agitarsi troppo. Perché in fin dei conti stanno facendo tutto gli altri.

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