Un record giapponese e il futuro italiano

MONDO. La Borsa giapponese non è mai stata così forte. L’indice Nikkei ha superato i 39.000 punti, battendo così il record di 38.915 segnato nell’ormai lontano 29 dicembre del 1989.

Allora i listini nipponici festeggiavano l’apice del boom economico nazionale post Seconda Guerra mondiale, ma anticipavano allo stesso tempo l’esplosione di una bolla finanziaria che avrebbe segnato per oltre tre decenni la crescita del Paese. Tra la coincidenza simbolica dei valori azionari di ieri e di oggi, ci sono trentacinque anni di cambiamenti dell’economia giapponese e mondiale che racchiudono insegnamenti utili anche per il nostro Paese.

Nel 1989, il mondo era nel pieno del «sogno giapponese». Nelle sale cinematografiche occidentali, quell’anno, debuttava «Black Rain», film d’azione del regista Ridley Scott. In una scena, l’ispettore di polizia nipponico Masahiro Matsumoto si rivolge sprezzante al detective statunitense Nick Conklin, impersonato da Michael Douglas, e gli dice: «Sono cresciuto con i vostri soldati. Eravate saggi a quel tempo. Oggi l’America è buona soltanto a fare musica e film. Noi costruiamo macchinari, noi plasmiamo il futuro». In due righe di sceneggiatura, ecco la sintesi del pensiero dominante tra i «declinisti» di allora, cioè tra quanti negli Stati Uniti ritenevano ineluttabile il sorpasso economico del Sol Levante, soprattutto per mezzo dell’industria tecnologica «made in Japan». Nel 1987, il «Time» in copertina raffigurava lo Zio Sam pronto ad affrontare a mani nude un gigantesco lottatore di sumo, lo sport nazionale giapponese. Era la versione patinata di una competizione cominciata alla fine degli anni ’70, quando i campioni dell’automotive del Paese asiatico avevano iniziato a sfidare i colossi di Detroit, proseguita a suon di scontri sui semiconduttori e culminata con un deficit commerciale a stelle e strisce che passò da meno di 7 miliardi di dollari nel 1980 a quasi 40 miliardi nel 1985. Al «declinismo» in voga negli Stati Uniti, intanto, faceva da pendant un’euforia speculativa e immobiliare in Giappone. Eccessi finanziari ed errori nelle politiche pubbliche (a partire dalla Banca centrale) costrinsero Tokyo a un brusco risveglio dal «sogno», certificato dal crollo dell’indice Nikkei che nel 1990 perse oltre 15.000 punti.

Alla luce di questo breve excursus, come giudicare il fatto che la Borsa giapponese sia tornata sugli scudi, addirittura superando i livelli di 35 anni fa? Nel 2023, l’economia giapponese è scesa dal podio mondiale: il suo Pil, dopo due trimestri di crescita negativa, vale circa 4.200 miliardi di dollari, superato dalla Germania (4.400 miliardi), a notevole distanza da Cina (17.500 miliardi) e Stati Uniti (27.900 miliardi). Non si tratta, evidentemente, di una tendenza che giustifichi l’attuale euforia borsistica.

La prima lezione da trarne è che il valore della Borsa rimane un indicatore importante ma certo non l’unico per valutare lo stato di salute di un’economia. Vale anche per l’Italia, in cui il Ftse Mib di Milano è tornato sopra i 32.000 punti, come non accadeva dal 2008. In tutto il mondo, più dei «fondamentali» come crescita del Pil o del reddito pro capite, a spingere i listini possono essere oggi i successi delle aziende tech e bancarie (e dei rispettivi titoli), uniti a una discreta quantità di liquidità a disposizione e di una maggiore propensione al rischio.

E allora come spiegare davvero la parabola di un’economia? Ecco la seconda lezione che arriva dai «decenni perduti» del Giappone: l’andamento di un’economia industrializzata nel medio-lungo periodo è determinato da fattori come la produttività del lavoro o la demografia. Il calo della prima e il collasso della seconda, in Giappone come in Italia, rimangono le variabili decisive su cui provare a intervenire per risalire la china.

La terza e ultima lezione è che gli equilibri geopolitici influenzano in maniera decisiva le sorti economico-finanziarie di un Paese integrato nella globalizzazione. Nel 1985, gli Accordi di Plaza voluti da Washington per intervenire sul valore dello yen segnarono l’inizio della fine del boom giapponese. Oggi la piazza finanziaria di Tokyo beneficia invece delle crescenti frizioni tra Washington e Pechino che, insieme al rallentamento dell’economia cinese, spingono molti investitori ad allontanarsi dalla Repubblica Popolare, preferendo destinazioni più rassicuranti. L’Italia si attrezzi, come ha fatto il Giappone, per essere tra queste destinazioni.

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