Una riforma dove i conti non tornano per tutti

ITALIA. Vero che ogni viaggio inizia con un piccolo passo, ma quello dell’Autonomia non si annuncia comunque in discesa.

Il centrodestra (soprattutto la Lega) esulta per il primo via libera del Senato e promette un rapido iter, ma i dubbi restano. Non sulla necessità di una riforma del Paese capace di esaltare le autonomie in una visione complessiva delle singole peculiarità, bensì da un mero punto di vista pratico. Quindi economico, quindi sociale. Lo potremmo sintetizzare con l’esempio forse banale ma comunque calzante della coperta corta: o ti copri le spalle oppure i piedi, tertium non datur. Questo se ragioniamo nell’ottica (imprescindibile) di un Paese che vuol rimanere unito: il discorso cambia se lo si vuole dividere accentuando le differenze - che ci sono - piuttosto che lavorare per un miglioramento complessivo.

La questione potrebbe anche avere dei riflessi sulla tenuta a lungo termine di un centrodestra che si muove sospeso tra presidenzialismo e federalismo e con una Lega che dopo le velleità (rientrate) da partito nazionalista sta ripiegando in quei territori che storicamente le sono propri, magari con una credibilità minore viste le divagazioni geopolitiche di questi ultimi anni, ma comunque con un’indubbia rappresentatività. E soprattutto la guida di due Regioni come Lombardia e Veneto da dove nell’ottobre del 2017 è arrivato un segnale comunque chiaro.

Intendiamoci, l’esito di quel referendum era tanto rispettabile quanto scontato: al di là della mera appartenenza politica, chi non vorrebbe una gestione diretta di materie rilevanti e delle relative risorse (perché di questo si tratta), a maggior ragione a fronte di una pressione fiscale non indifferente? Il problema è come inserire questa aspirazione, legittima, in un quadro complessivo che deve assicurare comunque una tenuta nazionale, ovvero contemperare le variegate facce di un Paese che per diverse ragioni non è mai andato, né ancora va, alla stessa velocità.

Ed è su questo punto che la riforma dell’Autonomia non sembra ancora dare risposte convincenti, perché non risolve l’ineludibile nodo degli squilibri di partenza. Vero che c’è un emendamento di FdI, forza egemone del centrodestra, che prevede una sorta di allineamento preventivo delle Regioni sulla scorta dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, prima di passare le competenza richieste, ma dove si trovano le risorse necessarie a colmare le (talvolta molto marcate) diseguaglianze che già ora esistono? A maggior ragione con i chiari di luna attuali.

Il tema di un diverso assetto in senso federale dello Stato non può assolutamente essere eluso ma nemmeno affrontato a colpi di slogan o maggioranza : una riforma è necessaria, ma proprio perché tale deve avere il più ampio consenso possibile e soprattutto le gambe per camminare. Se il via libera del Senato sarà il primo passo verso una necessaria riconsiderazione dell’assetto complessivo del Paese in senso ampio e condiviso è comunque un inizio, ma se si rivelerà solo il «la» a una marcia in solitaria, il rischio di aumentare le differenze già esistenti tra le regioni è quasi una certezza.

Si può (si deve...) discutere su come cambiare l’assetto istituzionale del Paese e renderlo più moderno e competitivo, capace cioè di dare risposte adeguate a un mondo sempre più complesso, ma serve un punto fermo: sono cambiamenti che vanno affrontati con una visione unitaria e non divisiva. Dando cioè le possibilità a chi già va veloce di correre ancora di più, ma anche (soprattutto...) i mezzi necessari a colmare, o almeno ridurre, il gap a chi fa fatica già ora e fondamentalmente da sempre. Non in una logica assistenzialistica, che troppi danni ha fatto, ma di crescita comune e con responsabilità che vanno di conseguenza: perché un Paese diviso tra serie A e B alla fine non aiuta nessuno. Qualsiasi altra soluzione è uno strappo, ancora più difficile da ricucire se la coperta è già corta.

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