La Francia e il tempo corto delle istituzioni

MONDO. La crisi istituzionale che attraversa la Francia in questi giorni non può essere letta soltanto come una vicenda politica. Essa segnala una tensione forse più profonda, che tocca l’equilibrio stesso della forma di governo della V Repubblica.

Quando, nel 1958, De Gaulle ne disegnò l’impianto, l’intento era chiaro: superare l’instabilità parlamentare cronica della IV Repubblica affidando al Capo dello Stato una funzione di garanzia e di continuità, distinta dal ciclo breve della competizione politica. La presidenza veniva così collocata in una posizione di distanza istituzionale, pensata per durare e per rappresentare, anche simbolicamente, la permanenza dello Stato al di là della contingenza. Oggi quello schema si misura con una realtà sociale e politica profondamente diversa. L’Assemblea nazionale non esprime più maggioranze lineari e coerenti, ma una rappresentanza articolata e frammentata, che rende più frequenti situazioni di «coabitazione». Tuttavia, la coabitazione, pur prevista come eventualità costituzionalmente possibile, non era stata concepita come condizione ordinaria di funzionamento del sistema. La V Repubblica presupponeva un consenso sufficientemente unitario da consentire al presidente di esercitare un ruolo di indirizzo riconosciuto anche dal Parlamento.

Quando questo presupposto viene meno, l’intero circuito decisionale entra in tensione e gli strumenti pensati per restituire chiarezza - come lo scioglimento anticipato - non producono più un nuovo equilibrio, ma ulteriore incertezza. In questo quadro si colloca una scelta istituzionale spesso ricordata solo di sfuggita: la riforma del 2000 che ha ridotto il mandato presidenziale da sette a cinque anni. Il «septennat» garantiva una distanza temporale tale da separare il tempo del Capo dello Stato da quello della dialettica parlamentare. Con l’introduzione del «quinquennat», e con la conseguente tendenza a sincronizzare le elezioni legislative con quelle presidenziali, il tempo della presidenza si è avvicinato a quello della competizione politica ordinaria. Questo accorciamento del «tempo istituzionale» ha ridotto lo spazio per mediazioni e ricomposizioni lente, avvicinando la funzione presidenziale alle logiche, per definizione più immediate, del confronto elettorale. La stabilità di una forma di governo non dipende dalla forza del vertice, né dalla rigidità degli assetti istituzionali.

icordare che la stabilità non nasce dalla concentrazione del potere, ma dall’esistenza di un equilibrio comprensibile, fondato su regole chiare, costanti e riconosciute come affidabili anche quando i rapporti politici si fanno più incerti. È lì che una democrazia misura la propria maturità

A reggere nel tempo le democrazie è soprattutto la continuità delle regole, la loro prevedibilità e la percezione, da parte dei cittadini e degli attori pubblici, di un equilibrio riconoscibile anche nelle fasi di conflittualità. L’esperienza francese mostra come un’architettura costituzionale costruita su una rappresentanza lineare incontri difficoltà quando la società si esprime in forme plurali e non più riconducibili a un unico asse maggioranza-opposizione. In queste condizioni, le istituzioni non si spezzano, ma tendono a irrigidirsi, e la tensione diventa sistemica. Le Costituzioni vivono non solo nella lettera dei loro articoli, ma nella loro capacità di accompagnare una comunità politica nel tempo. Quando il corpo sociale cambia più velocemente della forma di governo, l’instabilità non si manifesta solo nei momenti di crisi eccezionali, ma nel funzionamento ordinario delle Istituzioni. È in questi passaggi che lo sguardo giuridico può offrire un contributo essenziale: ricordare che la stabilità non nasce dalla concentrazione del potere, ma dall’esistenza di un equilibrio comprensibile, fondato su regole chiare, costanti e riconosciute come affidabili anche quando i rapporti politici si fanno più incerti. È lì che una democrazia misura la propria maturità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA