Le vere sfide della scuola fra telefoni e cervelli

MONDO. Dopo anni a contare culle sempre più vuote e silenziose, ora tocca alle aule: ogni settembre un po’ più vuote, un po’ più spente.

Prima o poi i nodi dovevano arrivare al pettine: il dato degli studenti italiani per la scuola che riparte è in inesorabile calo e la nostra provincia non fa eccezione. Sono in molti a credere che il vero inizio d’anno sia proprio quello scolastico, più di quello segnato a gennaio sul calendario. La riapertura rinnova il passaggio da una generazione all’altra. Non si tratta di un altro giro di giostra bensì della straordinaria occasione di parlarsi tra ragazzi e adulti, di far parte di quello che con una bella metafora è stato chiamato «villaggio educativo». Quest’anno l’avvio è stato caratterizzato sui giornali dal divieto di tenere il telefonino in classe (più facile a dirsi e che a farsi come abbiamo già ampiamente spiegato su questo giornale). Ma illudersi che basti vietare un telefono per ridare prestigio a una scuola è, appunto, un’illusione.

In realtà ci sono sfide ben più importanti. Ad esempio il confronto con l’intelligenza artificiale. Limitarsi a proibirla è come fermare il vento con le dita: il progresso non si può arrestare. Davvero pensiamo che i nativi digitali possano fare a meno delle milioni di app che nascono ogni giorno come funghi in tutti i rami dello scibile umano? Molto meglio insegnare loro a gestire questo mare magnum di algoritmi magari cominciando dagli stessi professori.

La vera sfida non sta in un display spento, ma in un algoritmo acceso. L’intelligenza artificiale non si ferma alla porta della scuola: entra, invade, interpella. Sono i docenti i primi a mettersi in gioco spezzando il pane dell’istruzione anche nel mondo digitale, anche se molti di loro sono fermi alla riforma Gentile (1923). È l’eterna sfida della scuola: preservare il patrimonio della conoscenza e aggiornarlo alla luce delle nuove conoscenze e delle nuove tecnologie.

Qualche buona notizia. Quest’anno il ministero annuncia 41.901 nuovi insegnanti in ruolo, pari a tre quarti dei posti vacanti. È un passo avanti, ma non la soluzione. La giostra delle supplenze non si ferma nemmeno quest’anno.

Settembre poi porta sempre la stessa litania: edifici da ristrutturare, trasporti che non funzionano, libri troppo cari. Nulla cambia. Ma, nonostante le macerie burocratiche, la scuola continua a vivere nelle aule piene di voci, nei professori che ci provano ancora, malpagati e a volte frustrati, a insegnare qualcosa che resti per tutta la vita. Sempre all’insegna del detto attribuito a Yeats ma in realtà di Plutarco: l’istruzione non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco.

È lì, in quel rapporto fragile tra chi insegna e chi impara, che l’Italia si gioca il suo futuro. Non nei proclami ministeriali, non nei divieti di smartphone, non nelle circolari. Un’ultima considerazione: smettiamola, per favore, con la retorica del merito scolastico, perché il principale compito di un insegnante è far andare avanti tutta la classe, a partire dagli ultimi. Perché a 60 anni di distanza vale ancora il pensiero di don Lorenzo Milani: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. Voi dite che è la selezione. Ma è un eufemismo. Vuol dire che la scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Non un rifiuto del merito in sé, ma una richiesta di cambiarne il significato: riconoscere le differenze di partenza, offrire più a chi ha meno, fare della scuola un ascensore sociale e non un moltiplicatore di disuguaglianze. Oggi, mentre il dibattito politico torna a sventolare la parola «merito» come vessillo, il messaggio di Barbiana resta un pungolo attuale.

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