Politica monetaria: gli annunci non aiutano

ECONOMIA. La lotta al caro prezzi non è mai stata un pranzo di gala, ma d’altronde liberarsi di un’inflazione elevata è nell’interesse di tutti: dei consumatori alle prese con la perdita di potere d’acquisto e degli imprenditori che fronteggiano costi e incertezza alle stelle.

Dovremmo essere dunque tutti d’accordo sull’obiettivo di ricondurre il tasso d’inflazione dell’Eurozona attorno al 2%, e ritenere fisiologico che durante un percorso tanto impervio si manifestino differenze di vedute sulle modalità con cui raggiungere la meta finale e in particolare sulla stretta dei tassi d’interesse ad opera della Banca centrale europea (Bce). È tutt’altro che fisiologico, invece, che il contrasto all’inflazione diventi per qualcuno il terreno su cui far crescere una campagna ideologica, in altri termini un’occasione per ostentare presunte virtù morali invece che per predisporre una strategia economica pragmatica. Il rischio è tutt’altro che peregrino nel nostro continente; basti ricordare cosa è accaduto un decennio fa durante la crisi dei debiti sovrani, quando il comprensibile sforzo per risanare le finanze pubbliche degli Stati fu messo a rischio anche da certe esagerazioni moralistiche di alcuni «austeri» leader nord-europei. Nella fase attuale, assistiamo forse a un fenomeno di «virtue signalling», come direbbero gli anglosassoni, applicato alla politica anti-inflazione? Il rischio esiste.

Nelle ultime ore, per esempio, hanno fatto discutere le parole della presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde: «Il nostro lavoro - ha detto - non è ancora finito, continueremo a innalzare i tassi a luglio». Dal punto di vista «tecnico», è complicato darle torto: l’inflazione dell’Eurozona a maggio era al 6,1%, in significativo calo dal picco del 10,6% dello scorso ottobre ma ancora distante dall’obiettivo statutario della Bce del 2%, e un’ulteriore stretta dei tassi nei prossimi mesi è prevista dalla maggior parte degli analisti oltre che ampiamente attesa dai mercati. La politica monetaria però, come insegna Ben Bernanke, Premio Nobel per l’Economia ed ex numero uno della Fed statunitense, «è per il 98% parole e per il 2% fatti». E sono proprio le «parole» di Lagarde e di alcuni suoi colleghi della Bce a sollevare dubbi legittimi.

Innanzitutto ci si potrebbe chiedere se in generale, di fronte al raffreddamento dei prezzi in corso, non sia saggio ridurre il numero di esternazioni pubbliche sulle scelte future, considerato che la politica monetaria dispiega i suoi effetti con un certo ritardo e che, come notato di recente da Fabio Panetta, appena designato dal Governo alla guida della Banca d’Italia, «occorre attendere alcuni trimestri perché i suoi effetti concreti si facciano pienamente sentire nell’economia reale». In secondo luogo, è legittimo domandarsi perché Lagarde senta il bisogno di annunciare un nuovo aumento dei tassi come fosse «cosa fatta» quando invece, ormai da settimane, la stessa presidente della Bce dichiari che «le decisioni della nostra politica monetaria devono essere definite di volta in volta a ogni riunione e continuare a essere guidate dai dati».

Terza e ultima domanda: perché, come notato dal Corriere della Sera, Joachim Nagel, numero uno della Banca centrale tedesca e membro del Consiglio direttivo della Bce, due settimane fa si è sentito in diritto di «smentire platealmente» Lagarde dicendo che i tassi dovranno salire anche a settembre, 24 ore dopo che la presidente della Bce aveva detto fosse troppo presto per speculare su un nuovo aumento? Annunci «rialzisti» ripetuti e insistenti come quelli di Lagarde e Nagel, oltre ad alimentare inutili schermaglie diplomatiche, possono avere un impatto negativo sulle «aspettative» dei cittadini europei. Le attese sull’inflazione futura, come noto, sono un’ancora fondamentale per le decisioni delle aziende e per le dinamiche retributive dei lavoratori. Riuscire a influenzare tali attese è perciò una misura fondamentale della credibilità dell’azione di una Banca centrale. Che ne sarebbe di questa credibilità se - a torto o a ragione - si diffondesse la convinzione che la Bce, magari per compiacere il «partito dei falchi», sta intraprendendo una crociata ideologica contro l’inflazione, incurante delle conseguenze per la crescita e il benessere degli europei? Le attese dei cittadini ne sarebbero in qualche modo influenzate, e a uscirne indebolita sarebbe l’economia di tutto il continente.

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