Si vince tutti: anche per il referendum i numeri sono opinabili

ITALIA. L’Italia è l’unico Paese al mondo, in cui dalle urne escono di regola tutti vincitori. Nelle maggiori democrazie è prassi consolidata che lo sconfitto, dopo essersi congratulato con il vincitore, addirittura esca di scena.

Da noi, invece, i partiti trovano sempre una ragione per sostenere che il voto è andato per loro comunque bene. Osano farlo persino quando si combattono in un referendum, dove la partita si gioca in modo rigorosamente binario, il che non dovrebbe lasciare margini di dubbio. Infatti, o prevalgono i sì o i no. Invece, anche in una consultazione referendaria, si riesce a rendere i numeri opinabili. Dice di aver vinto Schlein e lo dice anche Meloni.

I favorevoli all’abrogazione delle norme sottoposte al verdetto referendario si appellano a un ragionamento che dire ardito è poco. È vero - ammettono - che i sì non hanno raggiunto la soglia che rende valido il verdetto, però… C’è sempre un però. Per sostenere che hanno ottenuto comunque un risultato soddisfacente, argomentano che la quota di consensi incassati costituisce una buona base di partenza per vincere un domani le politiche. Con questo ragionamento i monarchici avrebbero dovuto festeggiare nel 1946 la sconfitta subita. In fondo, erano rimasti sotto i repubblicani per meno di due milioni di voti. Che dire poi di Renzi che alla bocciatura della sua riforma costituzionale aveva raccolto ben il 40%? Avrebbe potuto sostenere che aveva avuto i voti non solo per restare alla guida del Pd, ma per rilanciare. Parimenti, non poco bizzarro è il ragionamento sottostante la rivendicazione della vittoria da parte di Meloni. Dirsi contenta che l’affondo tentato contro di lei è fallito, ci sta. Che osi sostenere di aver vinto, senza nemmeno aver partecipato alla competizione, solo perché l’avversario ha mancato il quorum, questo non regge. Dichiararsi vincitori è il solito, comodo escamotage che permette di non pagare dazio e al contempo di tener alto il morale del proprio elettorato, prostrato per il cattivo risultato. Ma è anche la via di fuga più agevole per non affrontare i problemi che hanno prodotto la (non) vittoria. Eppure di problemi, anzi di vere sofferenze i due schieramenti ne avrebbero a iosa su cui meditare. La Schlein farebbe bene a prendere atto che marcare il campo largo con una forte identità di sinistra non promette bene per un suo allargamento. Lo mette in sofferenza, perché le componenti cosiddette riformiste sono incoraggiate a remare contro. Lo amputa, perché i partner di centro (Italia Viva e Azione) sono portati a smarcarsi, non solo, anche perché nel Paese allontana quell’elettorato non strettamente di appartenenza senza il quale lo schieramento progressista non ha mai vinto.

Il ruolo della Meloni

Da parte sua, Meloni ha avuto la riprova che, se ha vinto alle politiche di tre anni fa, questo lo deve solo al fatto che il centrosinistra si è presentato diviso. Non è prudente per Meloni affidare le proprie fortune elettorali solo al carisma della sua figura che riesce trainante per l’intera coalizione. Una donna sola al comando sarà pure una formula vincente in tempi di forte domanda di leader forti, ma resta il fatto che al comando resta appunto sola; il che non è un vantaggio, ma un serio limite.

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