Addio «cuore matto» Pelagalli. A Bergamo andò e tornò tre volte

IL LUTTO. Aveva 84 anni: giocatore, tecnico e infine dirigente, è scomparso tra domenica 24 e lunedì 25 marzo.

Lo hanno ricordato davvero in tanti Ambrogio Pelagalli, calciatore, allenatore e dirigente, volato via nella notte tra domenica e lunedì a 84 anni. È stato soprattutto una bandiera del Milan, con la conquista della prima Coppa dei Campioni, la cui finale non poté giocare a causa di un infortunio e che restò il rimpianto di una vita. Lo ha ricordato con affetto l’Atalanta, sottolineando come Ambrogio abbia il singolare record di unico calciatore a essersi trasferito in nerazzurro per ben tre volte.
Giocatore di un’impagabile generosità, iniziò terzino, diventò valido centrocampista nella maturità per chiudere da libero al termine della carriera.

Nato a Pieve Porto Moroine, nel Pavese, ma piacentino d’adozione, esordì nel Dagrada Manzoni, formazione collegata al Milan. In rossonero firma il primo contratto a 14 anni, vince due edizioni del Viareggio (1959-60), con esordio in Serie A il 29 maggio ’60 per poi passare all’Atalanta, insieme a Luciano Magistrelli, nell’operazione che portò Rondon a Milano.

Non era ancora ventenne, ma, insieme a Magistrelli, era considerato un’autentica promessa, tanto che entrambi furono convocati da Viani e Rocco per la Nazionale olimpica. L’arrivo a Bergamo però iniziò col «batticuore». Alle visite mediche di rito, infatti, i sanitari dissero all’ingegner Tentorio che il ragazzo aveva un soffio al cuore. Consulti su consulti finché Pelagalli non fu preso con riserva. Giocherà sempre e con grande generosità perché il suo non era un cuore malato, ma un po’ matto, come avrebbe cantato Little Tony. Collezionerà 33 ottime presenze con un gol a Bari decisivo per il pareggio. Ritorna al Milan per 5 campionati gloriosi (con 1 scudetto e 1 Coppa dei Campioni) e riapproda a Bergamo nel ’66, con 31 presenze e 4 gol, tra cui il rigore della vittoria a Vicenza (1-2), col vostro cronista, all’epoca giovane tifoso, insieme a un nutrito seguito di bergamaschi, scortato dalla polizia fuori dallo stadio perché si stava mettendo male.
Ambrogio passa alla Roma, dove sarà ricordato per aver sostituito tra i pali l’espulso Ginulfi in un Roma-Milan finito in parità, salvando i giallorossi con una serie di interventi prodigiosi e meritandosi così l’ovazione dell’Olimpico.

Il suo terzo ritorno a Bergamo, in un momento di grande fermento dirigenziale, causerà le dimissioni di Franco Previtali che avrebbe visto di buon occhio la permanenza di Salvori. I dirigenti Maj e Masserini premevano per Ambrogio, ne confermarono l’acquisto e il signor Franco se n’è andò sbattendo la porta. Tornerà in seguito, nell’ambito di un’autentica rivoluzione societaria. I due campionati in questione, nonostante l’apporto generoso di Pelagalli, decretarono una retrocessione in B e una salvezza rocambolesca l’anno seguente: 26 e 32 presenze, molte con la fascia da capitano. Poi le successive avventure a Taranto (ben 107 partite), Piacenza, che lo ricorda con grande affetto, e Medese a fine corsa.

Ha allenato, tra le altre, Cremapergo, Brindisi, Mantova e Derthona, di cui sarà presidente, ed è stato per anni osservatore del Milan, con una passione che gli rende onore. Gianni Brera invitò lui e la moglie a una tavolata al «Sole» di Maleo, una decina di buongustai in tutto, per una cena a base di “Ragù d’oca”. Era il 19 dicembre 1992 e nel ritorno, a notte inoltrata, l’auto di Brera e dei due amici con lui, fu distrutta da una Lancia che sbandò a 170 all’ora e li uccise tutti e tre. Ci piace pensare che Brera, insieme al prelibato ragù, stia aspettando Ambrogio con le gambe sotto il tavolo e un bicchiere generoso di Bonarda.

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