Cacciari: «Il cristianesimo pratico di Papa Francesco era volto a “fare la verità”»

I RICORDI. Il filosofo Massimo Cacciari: l’accusa di aver «desacralizzato» la dimensione religiosa è inconsistente.

In un’intervista televisiva sulla figura di Jorge Mario Bergoglio, Massimo Cacciari ha parlato di lui come dell’«unica voce dotata di un’effettiva autorità morale, e anche politica, che abbia indicato una via di ragionevolezza nell’affrontare i conflitti drammatici oggi in corso». Già deputato della Repubblica, europarlamentare e sindaco di Venezia, Cacciari è autore di opere che sono annoverate tra i «classici» del pensiero contemporaneo; nel 2002, inoltre, aveva fondato la facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Professore, si può individuare un tratto fondamentale dell’intero pontificato di Papa Bergoglio?

«Quello che egli ha inteso fare è già indicato dal nome pontificale che si era scelto, Francesco: nomen omen. Nessun Papa, in precedenza, aveva adottato questo nome. Tutto il pontificato di Bergoglio si è ispirato all’esempio di Francesco d’Assisi, oltre che a quello di Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. Francesco tra il XII e il XIII secolo, Ignazio nel XVI secolo salvarono la cristianità cattolica in periodi di profondissima crisi: anche Papa Francesco ha interpretato così il proprio tempo, ovvero il nostro. In questo si può ritrovare la cifra riassuntiva del suo pontificato, al di là dei singoli atteggiamenti e gesti compiuti in particolari occasioni: perché anche lui, come tutti, ha dovuto talvolta sottostare alle imposizioni di una civiltà delle immagini e delle mode».

Papa Francesco ha indetto due Giubilei, incentrati rispettivamente sul tema della «misericordia» e della «speranza»: sono due principi autoevidenti, o vanno interpretati?

«Vanno assolutamente interpretati. Intesa in senso cristiano, “misericordia” non ha nulla di sentimentalistico: indica lo sforzo di farsi prossimi a chi soffre, è derelitto; e tale avvicinamento implica la capacità di condividere per davvero le sue sofferenze, di immedesimarsi nella sua condizione di vita. Non si è compassionevoli a partire da un’astratta volontà di “essere buoni”: bisogna invece saper condividere il dolore altrui, al punto da avvertirlo noi stessi come umanamente insopportabile. Se manca questa capacità di compassione - nel senso più radicale, direi ontologico del termine - le “opere buone” possono andare e venire nell’arco di una giornata».

E per quanto concerne la speranza?

«Da un punto di vista puramente filosofico, “speranza” è una parola vuota: gli stoici in epoca antica, Baruch Spinoza nell’età moderna hanno sostenuto esplicitamente che la filosofia dovrebbe portare non all’esercizio della speranza, ma a una conoscenza obiettiva dei fatti e delle situazioni. Cristianamente la speranza, in quanto virtù teologale, non può che fondarsi sulla fede. Che cosa spera un cristiano? Non certo nella possibilità che il Prodotto interno lordo del nostro Paese aumenti dell’1 o del 2%; la speranza cristiana è che Dio venga e ci salvi. Lo dico non da credente, ma da persona che ha comunque una certa familiarità con la teologia».

Tutta l’intervista al filosofo Massimo Cacciari, ma anche tanti altri ricordi di Papa Francesco come quello di Monsignor Paolo Rudelli, nunzio apostolico in Colombia, di padre Ernesto Viscardi e molte altre sull’edizione digitale del giornale.

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