Cinquant’anni fa il rilascio del piccolo Mirko Panattoni. «Da allora ho sempre dormito poco»

L’ANNIVERSARIO. Era il 7 giugno 1973, aveva solo 7 anni. «Un’esperienza che mi ha segnato. Ricordo bene l’abbraccio con mia mamma: devo molto ai miei genitori».

È passato mezzo secolo e quel 7 giugno 1973 non è una data qualunque nelle cronache di Bergamo. Forse ai più giovani ricorderà poco o nulla, ma chi ha qualche primavera in più alle spalle non può non ricordarla riavvolgendo il nastro del tempo. Esattamente cinquant’anni fa veniva liberato Mirko Panattoni, il bimbo rapito da due banditi fuori dalla «Marianna» – il ristorante di famiglia in Città Alta – 18 giorni prima, il 21 maggio, mentre andava a scuola. «Avevo sette anni, frequentavo la seconda elementare», ricorda Panattoni, che oggi di anni ne ha 57.

Il rilascio a Pontida

Il primo «kidnapping» in Italia il suo, il rapimento di un bambino a scopo di estorsione. Furono pagati 300 milioni delle vecchie lire per il suo rilascio, avvenuto a Pontida in quel lontano 7 giugno, i sequestratori non furono mai presi. «Sono passati cinquant’anni, praticamente una vita, un lasso di tempo lunghissimo, è davvero difficile dire qualcosa», prosegue Panattoni. Riportare indietro le lancette del tempo e tornare con la mente al buio di quei giorni per far tornare a galla i ricordi costa fatica. «Non me la sento di parlarne, preferisco non ricordare. Certo, è stata un’esperienza che mi ha segnato molto profondamente. Posso dirle qual è il mio ricordo più nitido, una cosa che definirei quasi “animalesca”, mi passi il termine: l’odore della mia mamma quando l’ho riabbracciata – si commuove Panattoni –: come lo sentono i cuccioli, per questo ho usato l’aggettivo “animalesca”. Devo molto ai miei genitori, dopo quello che era successo mi hanno saputo proteggere e allo stesso tempo mi hanno fatto sempre sentire normale, si immagini che le ultime pedate da mio padre le ho prese che avevo trent’anni...», racconta quasi con nostalgia. «Anche la comunità di Bergamo Alta mi ha protetto molto: era come un paese, hanno fatto in modo di farmi sentire al sicuro».

«E’ stata un’esperienza che mi ha segnato molto profondamente. Posso dirle qual è il mio ricordo più nitido: l’odore della mia mamma quando l’ho riabbracciata»

Torniamo a battere il tasto del sequestro e dei giorni di prigionia. «Pochi anni fa mi è accaduto un fatto davvero strano: mi chiamò un tizio, disse dalla Bulgaria, si presentò con nome e cognome dicendomi di essere uno dei miei rapitori e di essere pentito per quel che aveva fatto. Mi ripeteva: “Tu sentivi gli elicotteri”. Ed era vero, ma era anche un dettaglio che non era mai stato reso noto. In quegli anni frequentavo il questore vicario, Fabio Giobbi. Ci si vedeva per mangiare un boccone o fare quattro chiacchiere, e raccontai anche a lui della telefonata: la convinzione fu quella che a chiamare fosse stata una persona a conoscenza del fatto, ma che non si trattasse di uno dei rapitori».

Le indagini

Ma ci fu un passo ulteriore: «C’era un’impronta rinvenuta sul volante dell’auto usata per il rapimento, un Maggiolino Volkswagen, fino a quel momento senza riscontri. Si fece un’altra verifica e il riscontro si trovò». Insomma, c’era il «match». «Saltò fuori un nome, un italiano, ormai avanti negli anni. Ma non si poteva fare più nulla, il reato era caduto in prescrizione. Chiesi a mia figlia maggiore, che fa il magistrato, se ci fosse un altro modo, ma mi disse che l’unica via sarebbe stata quella di una causa civile. Non feci nulla, ormai era passato tanto di quel tempo. Non voglio tirare fuori parole come perdono, ma ho pensato che fosse meglio lasciar andare. Sa, all’epoca del rapimento mio padre si era avvicinato molto a capire chi ci fosse dietro, aveva smosso mari e monti. Risultato: ci tirarono due bombe in casa. Fu allora che mia madre gli disse di smetterla con le sue ricerche».

La vita ora

E anche Mirko ha lasciato andare. Oggi Panattoni, che è titolare della «Marianna» con i due fratelli maggiori Marzio e Popi, è sereno e soddisfatto: sposato, è padre di tre figli (Marianna, 32 anni, magistrato; Maria Aurora, 29, che lavorava nel campo dell’economia; e Pietro, 17 anni, che frequenta il Liceo scientifico), una passione per la montagna e la moto. «La giornata la passo tra Colle Aperto, i bar del centro e l’ospedale, a me lavorare piace, lo faccio volentieri. Di certo non mi annoio, anzi». Ad aspettarlo c’è sempre il suo fidato Pongo, un cane westy che è con lui da nove anni. «È la mia ombra». Cos’è rimasto? «Da allora dormo poco, faccio proprio un po’ fatica».

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