I medici e gli infermieri «ripercorrono» il Covid: attori fra dolore e ironia

Giovedì sera al Sociale. Lo spettacolo «Giorni muti, notti bianche» messo in scena dagli operatori dell’ospedale Papa Giovanni. Teatro gremito.

Erano giorni, tre anni fa come oggi, in cui il dono più prezioso era il respiro. Perché mancava, mancava a troppi. Nella serata di giovedì 16 marzo, con sentimenti opposti, quel respiro è di nuovo venuto meno: stavolta però per l’emozione del ricordo, per la magia del teatro. Medici e infermieri del «Papa Giovanni», staccato il turno e svestiti i camici e le tute, sono saliti sul palco del Teatro Sociale: «Giorni muti, notti bianche», lo spettacolo costruito con la regia di Silvia Briozzo, ha scandito i ricordi e le sensazioni, ha aperto i cuori e riaperto le ferite, ha impastato il dolore con l’ironia rileggendo attraverso una chiave inedita la tragedia del Covid vissuta nell’ospedale che tre anni fa diventò la più grande trincea occidentale a un virus sconosciuto e potentissimo.

Lo spettacolo costruito con la regia di Silvia Briozzo, ha scandito i ricordi e le sensazioni, ha aperto i cuori e riaperto le ferite, ha impastato il dolore con l’ironia rileggendo attraverso una chiave inedita la tragedia del Covid vissuta nell’ospedale che tre anni fa diventò la più grande trincea occidentale a un virus sconosciuto e potentissimo.

Era gremito, il Teatro Sociale. Autorità (la direzione dell’Asst, l’amministrazione comunale e provinciale, i rappresentanti di altre istituzioni), medici e infermieri, colleghi, parenti e amici dei protagonisti sono rimasti ipnotizzati per l’ora e mezza di uno spettacolo denso e intenso, impreziosito dalle musiche dal vivo di Gianluigi Trovesi e Marco Remondini. Sul palco, appunto, una ventina di operatori del «Papa Giovanni». «La creazione e la messa in scena dell’opera diventano un gesto di cura individuale e di comunità», si legge nella presentazione dello spettacolo, e sarà effettivamente così. Sabato sera lo spettacolo sarà replicato al Cineteatro San Filippo Neri di Nembro, il 28 marzo di nuovo al Sociale in Città Alta.

Giorni muti, notti bianche: la foto gallery

Lo spettacolo di medici e infermieri dell’ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo.

Yuri Colleoni

L’inizio è potente. Un medico – il dottor Roberto Cosentini, direttore del Centro Emergenza Alta Specializzazione – guadagna il centro del palco a passo lento; si sfila il camice e lo appende. «Io odio il teatro», è l’esordio, «eppure stasera sono qui». È l’incipit di qualcosa di travolgente, la pandemia riavvolta dall’inizio alla fine della fase più aspra, quella che solo nella Bergamasca si è portata via seimila vite. Le voci e la recitazione di medici e infermieri ridanno vita ai luoghi comuni iniziali, alla sottovalutazione che galoppava soprattutto via social, le fake news. Scena dopo scena sul palco s’affacciano poi anche i timori dei medici e degli infermieri, giunti di fronte a qualcosa di inedito. Il pronto soccorso che s’affolla sempre più, i reparti che si trasformano. E poi, ancora: le telefonate ai parenti, i dialoghi con i pazienti schermati dai caschi delle C-pap, il dolore dell’estremo saluto. La fine che sembra non intravedersi mai. Invece, nonostante tutto, anche la luce tornerà.

Medici e infermieri raccontano dei sorrisi che nonostante tutto tornavano a comparire, nei momenti a fine turno in cui ci si faceva forza a vicenda, oppure ricordando le tante donazioni (specie quelle in fatto di cibo). Finisce con una lunga, lunghissima ovazione di tutto il Teatro Sociale, e con le lacrime sui volti degli attori e del pubblico.

C’è spazio, sull’avvicinarsi della conclusione dello spettacolo e dunque – seguendo la cronologia pandemica – della fine della prima ondata, anche per un’ironia acuta e contagiosa. Medici e infermieri raccontano dei sorrisi che nonostante tutto tornavano a comparire, nei momenti a fine turno in cui ci si faceva forza a vicenda, oppure ricordando le tante donazioni (specie quelle in fatto di cibo). Finisce con una lunga, lunghissima ovazione di tutto il Teatro Sociale, e con le lacrime sui volti degli attori e del pubblico. Di nuovo senza respiro, tre anni dopo l’inizio di tutto, grazie alla potenza della memoria e di un teatro terapeutico.

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