Inchiesta Covid:«Mio papà a San Siro per
Atalanta-Valencia morì 20 giorni dopo»

La Procura sta indagando sul focolaio. Giovanni Duci, pensionato di Sarnico, era sugli spalti Il figlio: «I sintomi manifestati due settimane più tardi»

Il 19 febbraio lui a San Siro c’era. Atalanta-Valencia 4-1, la notte di un’impresa calcistica che resterà nella storia nerazzurra, ma anche - si scoprirà - del possibile grande focolaio su cui ora sta indagando la Procura di Bergamo. Giovanni Duci di Sarnico (ma da tempo viveva a Paratico) era uno dei 45.792 tifosi presenti sugli spalti, sciarpa nerazzurra al collo e passione tumultuosa dietro un’aria spesso seria. È morto in ospedale a 72 anni il 10 marzo scorso, cinque giorni dopo aver accusato i primi sintomi del Covid. Il virus ha minato reni non in perfette condizioni, portando al blocco renale che non ha concesso scampo.

l figlio: contagio compatibile «Dal 19 febbraio al 5 marzo sono due settimane, come tempi di incubazione ci siamo», riflette il figlio Mario, 44 anni, autista di bus e volontario sulle ambulanze, che quella sera non era a Milano ma che cadde preda di febbre e tosse tre giorni dopo il decesso del padre e guarì il 2 aprile, scoprendo solo a maggio, dopo un tampone sierologico, di essere venuto in contatto con il coronavirus. Mario ora non nasconde che il contagio del genitore possa essere avvenuto proprio quella notte: «Sicuramente Atalanta-Valencia qualcosa ha comportato».

Giovanni Duci, ex operaio alla Riva di Sarnico e abbonamento in tribuna Creberg, a San Siro ci era andato con il pullman organizzato dal Club amici Gian Paolo Bellini di Sarnico, del quale era uno dei soci più attivi. «Non mancava mai a una cena sociale, era sempre il primo a prenotare per le trasferte e sul nostro autobus aveva il posto fisso in prima fila», racconta il vice presidente Diego Spolti. «Era andato anche a Zagabria - aggiunge Mario - e alle gare in Inghilterra con l’Everton e il Manchester City aveva deciso di rinunciare solo perché i voli erano costosi». Quel 19 febbraio sul pullman del club di Sarnico erano in 52. «Nelle settimane successive anche io ho avuto mal di gola e febbre, ma non gravi fortunatamente - ricorda Spolti -. Solo un altro socio tra quelli che vennero con noi a San Siro ha dovuto ricorrere all’ossigeno, ma curandosi a casa e guarendo senza riportare conseguenze». Quella partita fu un focolaio già attivo prima del 23 febbraio, quando all’ospedale di Alzano si scoprirono i primi contagiati in Bergamasca?

I pm stanno lavorando per appurarlo ed è per questo che hanno acquisito gli elenchi dei tifosi che acquistarono il biglietto. È un accertamento di tipo epidemiologico, non certo finalizzato a individuare colpe e responsabilità che, almeno in questo caso, non paiono sussistere. Sapere, però, che esistevano fonti di contagio parallele all’ospedale di Alzano potrebbe servire ad alleggerire la posizione di chi fu chiamato a chiudere e riaprire il pronto soccorso in poche ore, quel tragico 23 febbraio. «La tempesta perfetta» Ciò che è ipotizzabile è che quasi 46mila spettatori a stretto contatto fra di loro furono un habitat naturale per il virus. «La tempesta perfetta», l’ha definita Aldo Cristadoro, amministratore delegato dell’agenzia di data management Intwig che su Atalanta-Valencia ha approntato uno studio.

Oltre 36mila i bergamaschi che si riversarono a Milano in quel 19 febbraio, la maggior parte in auto, il resto su una cinquantina di pullman. Più di 1.700 provenivano dalla zona di Alzano, Nembro e Albino, la più colpita dalla prima ondata di pandemia. Il sondaggio condotto su un campione di 3.402 tifosi da Intwig e dal sito Bergamonews ha permesso di stabilire che oltre il 20% ha avuto sintomi nelle due settimane successive, risultando in buona parte positivo ai test. Inoltre, a Valencia più di un supporter iberico quella sera tornò da contagiato, ed era un periodo in cui il Covid in Spagna non aveva ancora cominciato a galoppare come da noi.

«Fino al 5 marzo mio padre non aveva nulla, la mattina era andato al mercato di Sarnico, come sempre - ricostruisce Mario -.È entrato all’ospedale di Iseo domenica 8 marzo, gli hanno messo il casco C-pap perché faticava a respirare. Il risultato del tampone è arrivato martedì, poche ore prima che morisse: positivo. Io e mia sorella (la moglie di Giovanni è morta nel 2016, ndr) gli siamo stati vicini sin quasi all’ultimo.

La mattina del 10 marzo ero lì accanto a lui, poi mi sono dovuto allontanare perché sono entrate in vigore le nuove disposizioni e gli ospedali sono stati chiusi ai parenti. Il medico del reparto mi aveva annunciato che dovevamo prepararci al peggio. Papà quella mattina ha trovato un attimo di lucidità per chiedermi: “Com’ è la situazione?”. “Non so, i dottori devono ancora passare”, gli ho risposto mentendo. E nel momento in cui glielo dicevo mi si è gelato il sangue. Avergli raccontato una bugia in quel momento è l’unica cosa che non mi perdono. Per il resto, anche alla luce di quanto è successo dopo, quando la gente moriva da sola e le famiglie non sapevano nemmeno dove fosse la salma del proprio caro, io e mia sorella ci riteniamo fortunati perché alla sepoltura abbiamo potuto assistere». L’ultima carezza È stata la loro ultima carezza al padre in una cerimonia intima, raccolta.

Gli amici del club di Sarnico l’hanno invece onorato devolvendo in sua memoria una somma all’ospedale Papa Giovanni. Prima di ammalarsi Giovanni s’ era mosso per partecipare alla trasferta per la partita di ritorno a Valencia. Si giocò a porte chiuse il 10 marzo, il giorno in cui lui moriva.

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