Isola Bergamasca, in sala parto nega al compagno il riconoscimento del figlio

IL CASO. Trentaseienne a processo per sottrazione di minore. Ha interrotto i rapporti con l’uomo e portato il bimbo in Bolivia.

Il colpo di scena in sala parto. Quando il compagno è entrato, lei gli ha negato il riconoscimento del figlio appena nato. Era il 2019, da quel momento è sorta una diatriba giudiziaria che ha portato la madre del piccolo – una 36enne boliviana – a processo per sottrazione e trattenimento all’estero di minore.

Il padre, un 33enne operaio metalmeccanico bergamasco che vive in un paese dell’Isola, ha prima ottenuto dal giudice il riconoscimento della paternità e in seguito l’affidamento esclusivo del piccolo. Che però risulta in Bolivia, nonostante la madre sia tornata a Bergamo dove lavora come colf e badante. Sta di fatto che il giovane, negli ultimi tre anni ha potuto vedere il figlioletto, che ha sei anni, solo due volte in videochiamata. Non si è arreso a questa situazione e, assistito dall’avvocato Gianfranco Ceci, ha denunciato l’ex compagna e ora è parte civile al processo.

«Lei mi diceva che ero il padre ideale per il figlio che aveva avuto dal primo compagno»

La relazione tra i due inizia nel 2014. Lui è volontario in un servizio per indigenti di cui beneficia la donna. Vanno a vivere insieme. «Lei mi diceva che ero il padre ideale per il figlio che aveva avuto dal primo compagno – ha ricordato il 33enne –. Lavorava e non poteva permettersi la baby sitter, così il piccolo veniva spesso accudito dai miei genitori, anche quando lei andò in Bolivia per un mese».

Con il figlio la fine dei rapporti

Dalla relazione arriva un figlio, la cui nascita segna però la fine dei rapporti. Lei se ne va a vivere con la madre, il neonato e il figlio avuto dal primo compagno, in un appartamento che il 26 maggio a processo il 33enne ha descritto come subaffittato anche a connazionali spesso ubriachi.

«Mio figlio sporco e trascurato»

«Lei aveva una vita incasinata, mio figlio l’ho visto spesso sporco e trascurato – ha testimoniato in aula l’operaio –. Io le passavo 200 euro al mese, potevo vedere mio figlio in casa di lei e quando lo stabiliva lei. In pratica, una volta al mese».

«Ma ora è difficile –, confida l’avvocato Ceci a margine dell’udienza –, per agire in Bolivia serve una sentenza penale»

«Mio figlio – ha testimoniato la madre dell’operaio – nei weekend andava a sistemarle la casa. Io non volevo che lui si comportasse come uno zerbino».

La vicenda giudiziaria

Nel 2021, secondo il racconto del 33enne, si interrompono anche quei rari incontri. «Da due videochiamate ho capito che mio figlio non era più in Italia», ha osservato l’operaio. È allora, nel 2021, che decide di intraprendere un’azione legale che si conclude con il riconoscimento della paternità. A cui segue, nel 2023, l’affido in esclusiva. Da allora è la 36enne che dovrebbe versare i 200 euro, ma la donna – che ieri non era presente in aula – non ha mai tenuto fede agli impegni. Per tentare di far rientrare il figlioletto in Italia il 33enne ha interessato anche consolato e ambasciata italiana in Bolivia. «Ma ora è difficile –, confida l’avvocato Ceci a margine dell’udienza –, per agire in Bolivia serve una sentenza penale». Prossima udienza il 4 luglio.

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