Istat, Blangiardo: «Morti, numeri da guerra. E la natalità giù del 24%»

Giancarlo Blangiardo, presidente Istat, definisce la pandemia «terza guerra mondiale». A dicembre 2020 a Bergamo crollo dei neonati.

i può definire la pandemia da Covid-19 «una guerra»? Il paragone, spesso utilizzato in questi mesi, ha suscitato anche qualche discussione. Ma Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, da uomo dei numeri ha ben pochi dubbi: parlare di guerra, in questo caso, «non è affatto inappropriato».

Professor Blangiardo, perché parla di «terza guerra mondiale» riferendosi alla pandemia e ai suoi effetti?

«Le mie riflessioni partono dai dati statistici. In Italia, fino a oggi, sono morte per Covid circa 125 mila persone. Dalle statistiche Istat sulla Seconda guerra mondiale emerge che nel nostro Paese, dal 10 giugno 1940 all’8 settembre 1943, si è rilevato un aumento di circa 120 mila morti, tra civili e militari. Numeri equivalenti».

Peraltro, nel caso del Covid questo elevato numero di vittime si è registrato in un lasso di tempo inferiore.

«Esatto, nella Seconda guerra mondiale ci sono voluti 40 mesi per arrivare a quella cifra, qui ne sono bastati 15. Siamo quindi di fronte a un fenomeno di dimensione identica a una guerra, addirittura più concentrato nel tempo. Rispetto a un conflitto armato oggi non ci sono bombardamenti ed edifici distrutti, i danni materiali sono diversi, ma è innegabile che si tratti di un fenomeno mondiale, nessun luogo è stato risparmiato. Per questo credo che chiamare la pandemia “Terza guerra mondiale” non sia assolutamente inappropriato».

E se di fenomeno mondiale si tratta, alcune aree, come la Bergamasca, sono state colpite in modo particolarmente pesante. Le i ha detto che qui siamo «tornati indietro di vent’anni»: in che senso?

«Il parametro che utilizziamo è la speranza di vita alla nascita: la durata media della vita viene calcolata ogni anno con un modello apposito che ci porta a stimare quale può essere l’aspettativa di un neonato. Questo indicatore ci aveva abituato nel tempo a un continuo miglioramento, per Bergamo eravamo arrivati a 81-82 anni per un maschio, 85-86 per le femmine. Se però rifacciamo il calcolo partendo dal rischio di morte nel 2020, dobbiamo scendere di 3-4 anni. E questo vuol dire, in termini numerici, tornare alla speranza di vita che si aveva nel 2000. Vent’anni fa. È chiaro che è stato un anno molto particolare: speriamo che si tratti di una parentesi, ma questa oggi è l’informazione che ricaviamo dai dati statistici».

Come influisce questa situazione sulla nostra visione del mondo, del futuro?

«Da un lato c’è una reazione che potremmo, semplificando, sintetizzare come “per fortuna l’ho scampata”. Così, per esempio, si rileva un aumento del grado di soddisfazione verso la propria vita (in base ai dati Istat, il bilancio è molto positivo per il 44,5% degli italiani, contro il 43,2% del 2019, ndr). La lettura che possiamo dare è che probabilmente, diciamo così, avendo visto la guerra, ci riteniamo tutto sommati soddisfatti di ciò che abbiamo, rivalutiamo alcuni aspetti della nostra esistenza».

E dall’altro lato?

«C’è la consapevolezza che sta succedendo qualcosa di molto preoccupante e che bisognerà gestirne le conseguenze, cercando di recuperare il terreno perso, pure sul fronte economico».

Ambito in cui le ricadute della pandemia sono notoriamente pesanti.

«È stata impressionante la caduta di tutti gli indicatori: Pil, occupazione, fatturato, vendite. Chiaro che c’è stato un colpo violento, con dei rimbalzi legati all’andamento dei contagi. Ora ci si avvia lentamente verso il recupero».

Un aspetto che colpisce nel rapporto «Bes» (Benessere equo e sostenibile) 2020 dell’Istat è come con la pandemia il divario di mortalità tra meno e più istruiti si sia ulteriormente allargato. Come si spiega?

«Anche prima della pandemia, i dati mostravano in modo chiaro che una laurea corrisponde a un allungamento dell’aspettativa di vita di qualche anno, maggiori sono le attenzioni alla salute, a certe abitudini e fattori di rischio, all’alimentazione. Anche con la pandemia appare che le persone più informate abbiano assunto atteggiamenti più cauti, è probabile che ci sia una correlazione in questo senso».

Se i dati sulla mortalità sono da «guerra», quali sono invece le ricadute sulla natalità?

«Per ora i dati sono parziali: i nati nel 2020 in larga maggioranza sono stati concepiti pre-pandemia. Da questo punto di vista è rilevante solo il dato di dicembre, con bambini concepiti a marzo. E qui a livello nazionale il calo, rispetto al dicembre 2019, è del 10,3%. Ma in Bergamasca si sale nettamente: meno 24%. Scenario che si accentua sul gennaio 2021: la discesa in Bergamasca resta paragonabile, mentre in Italia si arriva oltre il 14%. Con queste premesse, nel 2021 la natalità sarà sicuramente in flessione rispetto al 2020. Avremo invece numeri migliori sulla mortalità».

Si ricordano altre annate dai numeri altrettanto tragici nella storia del nostro Paese?

«Da quando abbiamo dati disponibili, sono tre gli anni in cui si sono rilevati oltre centomila morti in più rispetto ai 12 mesi precedenti: nel 1867, con l’epidemia di colera asiatico; nel 1915, primo anno della prima guerra mondiale, e nel 1918, con la “coda” della guerra e l’influenza spagnola: in quel caso ci furono oltre 300 mila morti in più».

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