«La mia immagine del Covid? Non i camion ma il ritorno delle urne: lì ho visto il dolore»

L’INTERVISTA. Il Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, ricorda quei terribili giorni tra marzo e aprile. «Ho capito chiaramente ciò che aveva rappresentato quell’uragano devastante nelle famiglie travolte dal virus».

«La Chiesa deve essere la casa in cui il dolore può riposare, dove l’uomo possa serenamente consegnare la propria sofferenza. È necessario che sia così. Molti portano ancora dentro il cuore, come fosse una tomba, lo strazio che hanno provato in quei momenti, ma non può essere così per sempre. Ecco perché la Chiesa deve davvero essere il luogo in cui l’angoscia dell’uomo può essere depositata, perché possa abbandonare la forza distruttrice che ha dentro di sé per trasformarsi in qualcosa capace di generare una nuova vita, una vita migliore». L’immagine che il Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, consegna nel quarto anniversario del ricordo delle vittime del Covid non è quella dei carri dell’Esercito che la sera del 18 marzo 2020 lasciarono la città con il loro carico di bare, ma è quella di un sentimento più intimo. Lo affida soprattutto ai familiari delle vittime, moltissime delle quali hanno lasciato la propria casa senza rivedere mai più il volto dei propri cari, senza più ricevere una carezza o un bacio da chi hanno amato per una vita intera, presentandosi in totale solitudine sulla soglia della morte.

«Una riflessione - spiega monsignor Beschi – che è nata da un episodio particolare, legato alla prima iniziativa pubblica che si è riusciti ad organizzare per la solennità di Sant’Alessandro dopo che le limitazioni per la pandemia erano state tolte. In Cattedrale era stato allestito uno spettacolo teatrale che prendeva le mosse da “Addio alle armi”, il grande romanzo di Ernest Hemingway, e in cui veniva rappresentato il grande dolore della guerra e tutto ciò che durante la guerra accade. All’inizio - ricorda il Vescovo - ero perplesso sull’opportunità di mettere in scena questo spettacolo proprio in Cattedrale, ma alla fine il mio atteggiamento è completamente mutato, perché la lettura scenica diretta da Paolo Bignamini mi aveva coinvolto, convincendomi della scelta fatta. La narrazione scaturita quella sera mi ha suscitato quella riflessione sul dolore, riflessione che ho poi voluto restituire subito a chi era presente, molti dei quali familiari delle vittime o medici e infermieri che avevano speso tutto di sé nelle corsie degli ospedali. Mi sembrava giusto e doveroso condividere con loro per primi questa speranza che la Chiesa può dare a chi soffre».

«Il pensiero era certamente per i morti che affidavamo al Signore, molti dei quali era come fossero scomparsi nel nulla, ma poi c’era il sentimento di vicinanza a chi era sopravvissuto, a chi era ancora vivo in quei momenti di intensa paura per tutti, quando tutte le restrizioni erano ancora in vigore».

Quattro anni dopo lo scoppio della pandemia, qual è la prima immagine che le viene alla mente?

«Nella cerimonia al Cimitero monumentale è stata evocata da tutti l’immagine dei camion militari carichi di bare, un’immagine che ha fatto il giro del mondo in pochi minuti, ma il mio ricordo è piuttosto legato al ritorno delle ceneri delle vittime. Era l’8 aprile e quella volta, come peraltro anche quella successiva, erano i furgoni dei Carabinieri a riportare al Cimitero non 73 bare, ma centinaia di urne. Ai miei occhi fu un’immagine chiarissima di ciò che aveva rappresentato quell’uragano devastante nelle famiglie travolte dal virus, nelle singole persone che componevano quelle famiglie. Il pensiero era certamente per i morti che affidavamo al Signore, molti dei quali era come fossero scomparsi nel nulla, ma poi c’era il sentimento di vicinanza a chi era sopravvissuto, a chi era ancora vivo in quei momenti di intensa paura per tutti, quando tutte le restrizioni erano ancora in vigore. Chi era stato attraversato dal dolore era come avvolto da una tragedia senza fine. I racconti dei familiari delle vittime erano strazianti: avevano visto i loro cari, malati, alle prese con serie difficoltà respiratorie ma ancora vivi, uscire dalle loro case, portati in ospedale dal personale eroico della Croce Rossa e dei diversi operatori sanitari, ma poi non li hanno più rivisti, in nessun modo, come fossero letteralmente scomparsi. Io credo che questo sia stato un altro elemento di dolore molto forte. Ecco, quelle urne dicevano tutto questo sgomento, ed è proprio questa la prima immagine che mi ritorna ed è quella che maggiormente mi porto nel cuore».

«Di quei momenti, però, ho anche un ricordo personale, legato a uno dei 24 sacerdoti che avevamo perso in soli 15 giorni: sapevo che era morto ma non sapevo più dove fosse. Proprio quel giorno, proprio mentre passavo da una bara all’altra per benedirle, per accarezzarle, ad un certo punto mi è comparso davanti agli occhi un post-it sopra un feretro con il nome di quel sacerdote»

Nel proprio intervento, il sindaco Gori ha ricordato la benedizione che lei diede quel 18 marzo alle bare deposte nella chiesa di Ognissanti al Cimitero, sottolineando la carezza che portò a ciascuna di esse passando di bara in bara. Ricorda quel momento?

«Sì, lo ricordo molto bene. Ricordo anche un forte “sentire comune” con il sindaco e le altre pochissime persone che parteciparono a quel momento. Ricordo anche che mentre tutti gli altri si erano fermati sulla porta della chiesa, io sono entrato e sono passato di bara in bara, con fatica, perché quasi non c’era spazio tra una bara e l’altra. Di quei momenti, però, ho anche un ricordo personale, legato a uno dei 24 sacerdoti che avevamo perso in soli 15 giorni: sapevo che era morto ma non sapevo più dove fosse. Proprio quel giorno, proprio mentre passavo da una bara all’altra per benedirle, per accarezzarle, ad un certo punto mi è comparso davanti agli occhi un post-it sopra un feretro con il nome di quel sacerdote. E questo per dire di come anche tante altre famiglie avranno vissuto lo stesso sgomento, lo stesso sconcerto unito al dolore».

Durante il Covid, lei ha scelto di stare vicino a tutti i bergamaschi in un modo molto particolare, recitando settimanalmente un Rosario in uno dei tanti luoghi mariani di Bergamo e provincia. Un’iniziativa che raccolse un consenso davvero unanime. Come nacque quell’idea?

«Per la verità è stato un sacerdote a suggerirmi l’idea. Cercavo un modo con cui esprimere una vicinanza, la vicinanza del Vescovo, a tutta la comunità, ma – se mi è consentito, e lo dico con trepidazione – anche la vicinanza di Dio al suo popolo, che pure ha bisogno di segni che la esprimano. Così ho cominciato questo viaggio nei vari luoghi mariani della Diocesi, da nord a sud, da est a ovest. Ricordo le strade deserte che percorrevo da solo, per arrivare in posti dov’era presente pochissima gente. E qui devo ringraziare Bergamo Tv e il sito web de L’Eco di Bergamo, che trasmettendo in diretta quei Rosari mi hanno consentito di raggiungere davvero tutti, perché la restituzione che ho avuto di quei momenti è stata davvero corale. Tutti si sono sentiti avvicinati e anch’io, che all’inizio ero sconcertato, quasi impaurito, mi sono sentito avvolgere da una forza spirituale interiore che credo il Signore mi abbia donato per evitare che potessi tirami indietro. Il Papa dice che i vescovi e i preti devono stare davanti al popolo per trascinare tutti, devono stare dietro al popolo per non dimenticare nessuno, e devono stare in mezzo al popolo per tenerlo unito. A me piace molto stare in mezzo, ma in quel momento ho capito che dovevo stare davanti».

Cos’è rimasto oggi di quella sensibilità?

«La sensibilità è rimasta, ma, a mio giudizio, è rimasta a livello personale. Tutti ricordano non soltanto il dolore, ma anche la solidarietà, la partecipazione, la condivisione… ma lo ricordano a livello personale e non comunitario. Grazie al pellegrinaggio pastorale che sto facendo in tutta la Diocesi ascolto molte persone, e tutte mi consegnano con gioia, con interiore compiacimento, questo sentimento, questa sensibilità, che tuttavia fatica a diventare corale. Dobbiamo trovare – e anch’io mi metto a servizio di questo obiettivo – le modalità perché da canto individuale diventi un canto corale».

Le piace un po’ meno la Bergamo di oggi, dunque?

«Questo no. Dal gennaio del 2021, quando ancora c’era il coprifuoco e tutte le limitazioni introdotte contro la pandemia, ho cominciato appunto il pellegrinaggio pastorale che mi porta in tutte le parrocchie. Io desidero restituire queste visite, questi incontri con le persone, desidero dar voce alla parte migliore che ogni persona porta dentro di sé e che in qualche modo vuol consegnare al Vescovo, perché è giusto che il Vescovo si faccia eco di questa parte migliore di Bergamo e di tutte le persone che costituiscono la sua comunità».

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