Dalla montagna alla città, in un libro le foto di un mondo «morto in un attimo»

Terre alte. Sabato 26 al Centro congressi la presentazione del libro di Emilio Moreschi «Dalla montagna alla città». Camanni, alpinista e giornalista piemontese: «Le Alpi meno contaminate, come le Orobie, oggi hanno un vantaggio».

«La montagna è scesa in città, ma il problema è che si è trattato di un passaggio a senso unico». Enrico Camanni, il grande universo delle terre alte lo conosce bene. L’ha vissuto prima come alpinista, proseguendo poi questa esplorazione come giornalista (è stato per anni redattore capo de «La rivista della montagna», fondatore e direttore del mensile «Alp» e direttore della rivista internazionale di cultura alpina «L’Alpe») e scrittore. Anche per questo mentre osserva il volume di Emilio Moreschi è come se riavvolgesse il nastro di una storia di cui è stato testimone in prima persona.

Il libro «Dalla montagna alla città» (386 pagine, Centro studi Valle Imagna – Fondazione per la storia sociale ed economica di Bergamo) verrà presentato sabato 26 novembre alle ore 11, nella Sala Oggioni del Centro Congressi Giovanni XXIII; saluti di Nadia Ghisalberti assessore alla Cultura, Carlo Mazzoleni, presidente della Camera di Commercio e della Fondazione per la Storia Economica e Sociale, Giorgio Locatelli, presidente del Centro Studi Valle Imagna, Marco Ghisalberti, consigliere delegato della Fondazione Bergamo nella Storia; interventi di

Carlo Dignola, caposervizio Cultura de «L’Eco di Bergamo», Roberto Sestini, Archivio Fotografico Sestini - Museo delle Storie di Bergamo, Ettore Tacchini, avvocato, Alfonso Modonesi, fotografo e codirettore editoriale della collana Foto-impressioni, Gianni Limonta, fotografo, Roberta Frigeni, direttore scientifico presso la Fondazione Bergamo nella Storia; conclusioni di Emilio Moreschi; modera Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna.

Sull’arco alpino

Il libro fotografico di Moreschi è il paradigma di ciò che è capitato su buona parte dell’arco alpino: la scomparsa di un mondo sceso a valle senza ottenere nulla in cambio o giù di lì. Così le immagini scattate sulle Orobie negli anni Settanta (raccolte nello stesso volume e accompagnate dai testi di Paolo Aresi, Pino Capellini, Antonio Carminati, Carlo Dignola, Gianni Carzaniga, Alberto Ceresoli, Michele Corti, Remo Morzenti Pellegrini, Emanuele Roncalli e Cesare Rota Nodari) sono le stesse che hanno segnato le valli piemontesi in cui Camanni ha mosso i primi passi in quota e che meglio di altri luoghi ha potuto osservare in questa profondissima trasformazione.

Camanni perché il passaggio è stato a senso unico?

«Perché i valori della montagna sono stati assimilati da quelli urbani, ma quando la città è salita sulle terre alte lo ha fatto senza rispettare tutti ciò che di positivo là era custodito. Un passaggio traumatico di cui scontiamo le conseguenze da almeno trent’anni. Il risultato è che si fa fatica a costruire qualcosa che abbia un futuro, che non sia una copia della città stessa».

Qualche esempio positivo però c’è: perché non replicarlo?

«Certo che esistono, il problema è che si tratta di casi isolati, non c’è un coordinamento nazionale ma neanche regionale. Si tratta di modelli locali che cercano di aggregarsi, in genere grazie alla spinta di personaggi molto generosi pieni di idee e che riescono a fare comunità, che poi è quello che conta. Succede attorno al Monviso o in altre località alpine, ma parliamo di piccoli numeri, con forme di turismo poco invasive che riescono a convivere con le realtà presenti».

A proposito di turismo: lei è stato promotore di Sweet Mountains, progetto che intendeva promuovere una frequentazione delle montagne più dolce e diversa dal modello incentrato solo ed esclusivamente attorno agli impianti sciistici: che cosa vuol dire nella pratica?

«Vuol dire sostanzialmente costruire delle relazioni con chi in montagna vive, puntando su una serie di attività molto varie. Dall’escursionismo all’enogastronomia alla conoscenza e alla comprensione dei luoghi. Il problema è che anche qui serve un progetto, un coordinamento. Non si può sperare che le popolazioni locali facciano tutto da sole».

Che sentimenti suscitano immagini come quelle di Moreschi?

«Come diceva Pasolini, mi sorprende sempre il fatto che quel mondo è morto in un attimo. Un mondo che, nel bene o nel male, era frutto di vicende secolari: era sì cambiato, ma molto lentamente, seguendo i ritmi delle migrazioni stagionali, con contatti che risentivano delle distanze e delle difficoltà di spostamento; invece in venti, trent’anni è stato spazzato via. Chi come me ha più di sessant’anni se lo ricorda ancora, per gli altri non restano che le testimonianze dei libri o dei musei».

E delle Orobie che ricordi ha?

«Mio papà era di Sondrio e conosco soprattutto il versante valtellinese. Sono montagne molto severe. Mio nonno era medico condotto e mi raccontava di quando doveva far visita a pazienti in questi paesi isolati, dove la vita era durissima. Sono tratti che si riconoscono ancora, soprattutto d’inverno, e che hanno contribuito a mantenere più a lungo che in altri luoghi la cultura alpina e lo stile di vita di un tempo. Poca contaminazione insomma e, salvo alcune eccezioni, uno sviluppo turistico contenuto. Proprio questa asprezza rappresenta la loro peculiarità e il loro fascino. Caratteristiche che, nell’ottica di adottare un modello di sviluppo alternativo, potrebbero rappresentare un grosso vantaggio».

È la forza del bello e della natura, quella che abbiamo riscoperto anche durante la pandemia con i suoi lockdown..

«Sì, e se è vero che non possiamo ricostruire le Alpi di una volta è vero anche che le Alpi meno urbanizzate hanno molte più chance, perché è lì che si trova quello che la gente cerca: il bello, la natura, i silenzi. Ancor di più dopo la pandemia che ci ha costretti a guardare al territorio più vicino: non si tratta di un concetto vecchio, di amarcord, ma è il futuro».

Anche Emilio Moreschi nel suo volume auspica un ritorno alla montagna che, in qualche misura, negli ultimi tempi, si è registrato: un fuoco fatuo o qualcosa di più?

«Non ne farei un mito. C’è molta gente che ha fatto la scelta di trascorrere nei borghi e nelle località di montagna qualche mese, alternando questi soggiorni alla città. Sicuramente è un fenomeno destinato a crescere, ma si tratta anche in questo caso di piccoli numeri. Servirebbe di più».

Cosa?

«Politiche capaci di creare delle condizioni di vita accettabili: scuole, servizi, ciò che serve a una famiglia. Da questo punto di vista, a mio avviso, bisognerebbe abbandonare l’idea di ripopolare le valli più alte e isolate, puntando piuttosto alla media montagna, quella più accessibile. Alcune regioni a statuto speciale ci stanno provando, non sempre ottenendo i risultati auspicati, quelle a statuto ordinario invece mi sembra facciano ben poco e poco è quello che ottengono».

Lei parla spesso ai giovani di montagna, intervenendo nelle scuole: c’è interesse?

«Sì c’è, ma, dopo aver raccontato, bisognerebbe avere la possibilità di portarli sul posto, spiegar loro le cose dal vivo, visitando le stalle e le vigne. Credo che questo, almeno nei territori montani, dovrebbe rientrare nella didattica in maniera obbligatoria. Il solo racconto in aula non può bastare».

Un’ultima domanda sul libro: nell’era del digitale e dei portali specializzati trova che pubblicazioni come quella di Moreschi possano ritagliarsi comunque un loro spazio?

«Secondo me sì: siamo talmente sepolti da immagini che quando un volume è fatto bene come questo, un senso, un suo spazio lo trova. È la forza della testimonianza e del racconto».

Leggi l’intervista su L'Eco di Bergamo di sabato 19 novembre

© RIPRODUZIONE RISERVATA